Febbre di Jonathan Bazzi: quando il valore civile viene confuso con quello letterario

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La storia personale di Jonathan Bazzi, da quel che ho letto in rete – e qui il paratesto è importante –, è una vicenda di sofferenza e redenzione.

Il ragazzo ha fatto un percorso del quale andar fiero, ha affrontato quella che si definisce un’infanzia difficile, problemi di ansia non indifferenti, ha scoperto di essere omosessuale a Rozzano, ha fatto persino coming out in rete in relazione alla sua sieropositività: sembra, insomma, quella che si definisce una bella persona, forgiata dalla lotta, il classico ragazzo col quale si empatizza in modo istintivo.

Il suo post del 2016 sulla malattia, pubblicato su gay.it e subito diventato virale, gli ha riconosciuto una discreta attenzione: proprio questa confessione è la pietra angolare di Febbre, il suo romanzo d’esordio.

Ma l’ho scoperto dopo. Ho preferito affrontare la lettura senza sapere nulla di quel che sta dietro alla narrazione. Ho provato a dare una mano all’autore a scomparire, come si dice, nell’opera, perché parli il testo e non (solo) il contesto.

Nell’incipit, narrato in prima persona, Jonathan ci informa di avere una febbre leggera ma opprimente, che non lo molla da settimane, che condiziona ogni minuto della sua esistenza.

Sono piuttosto affascinato dalla premessa kafkiana, ma non è questa la vicenda che l‘autore ha urgenza di raccontarci: Febbre è un memoir, del genere ossessionato dall’attinenza della messa in scena alla realtà autobiografica dell’autore.

La storia si sviluppa su due piani, a capitoli alterni: c’è la vicenda principale, quella della febbre, e c’è il percorso che conduce Jonathan, dai primi ricordi d’infanzia, all’inizio della sua malattia.

Nei capitoli-flashback l’autore riveste il suo passato di una cupa patina amarcord, cita ossessivamente le vecchie marche di giocattoli, i programmi televisivi dell’epoca, come se questo espediente possa rappresentare una chiave epifanica per ridonare a quel tempo morto una nuova pienezza.

Invece, inciampa nel didascalico: è cresciuto a Rozzano, Rozzano è una gabbia, ci sono gli zarri, la famiglia è difficile, non ci sono soldi, sono tutti bruti e lui è l’unico dotato di sensibilità, il padre è un farabutto, la madre ci prova ma è distratta, famiglie meridionali rumorose, insomma, sembra tutto uscito da un testo di J-Ax.

Decine e decine di personaggi di contorno entrano ed escono subito di scena, cugini, vicini di casa, nonne, zii, tutte macchiette caratterizzate da qualche forma di tic o mania, come se tanto bastasse per fargli prendere vita. 

Nel frattempo, l’altro filone narrativo si rivela una pista morta: poiché ha scelto il format dell’alternanza presente/passato, Bazzi è costretto a produrre capitoli in numero uguale: sui flashback prova a cavarsela con l’analisi dell’anagrafe di Rozzano e la trascrizione del suo diario delle medie («Corro giù, verso l’entrata. Venite, venite. Ma com’è giovane tua madre… Ma com’è bella! Signora, signora, lei è la mamma di Jonathan? Signora, è bellissima, ma quanti anni ha? Sì, è vero, mia madre è bellissima, hai i capelli rossi lunghi, ha la frangia e gli occhi verdi. Le altre mamme sono tutte grasse o brutte o vestite male: la mia è la più giovane ed è vestita come quelle della TV.»), ma sul presente non ha una storia da raccontare; dopo la scoperta della malattia, infatti, Jonathan passa attraverso un processo di accettazione privo di veri episodi memorabili, e la tensione narrativa si dissolve nel sentimentalismo.

L’unico modo che ho per spiegarvi la situazione è quella di proporvi la sinossi dei primi otto capitoli del filone sul presente (quelli, tra l’altro, dove c’è un minimo di movimento):

1: Jonathan ha la febbre ed è preoccupato.

3: Jonathan è sempre più preoccupato. Scopriamo che è gay e convive. Va dal medico. Gli prescrivono esami.

5: Jonathan va a ritirare gli esami. Secondo il medico è mononucleosi. Poteva andare peggio.

7: Jonathan surfa sul web e scopre che non è mononucleosi. Si convince che sia un tumore.

9: Diversivo: qualcuno chiude con un lucchetto l’armadietto di Jonathan in palestra. Ci rimane malissimo.

11: Jonathan va a ritirare i nuovi esami, ma gli dicono che il protocollo prevede che glieli debba spiegare un medico. Ahia.

13: Jonathan e il suo ragazzo sono nella sala d’aspetto, in attesa di vedere il medico.

15: il medico dice a Jonathan che ha l’HIV.

Nel frattempo, sull’altro canale, il giovane Jonathan si rende conto di essere omosessuale, ha problemi con l’ansia, cresce coi nonni, cambia tre scuole superiori; Rozzano, mi informa Wikipedia, ha 42.417 abitanti, e Bazzi ce li vuole descrivere tutti.

Le chiusure dei capitoli sono vestite di un’enfasi melensa, talvolta imbarazzante. Dopo aver scoperto che una frase scritta sul muro durante il suo primo appuntamento con il fidanzato è stata rimossa, Jonathan chiude così: «L’avrà cancellata qualcuno che non sapeva che quello era il titolo di una storia d’amore.»

O ancora, al termine del capitolo sulla madre: «Amare qualcuno è riflettere la sua luce? Proprietà transitiva.»

Sugli incipit non andiamo meglio: «Coerenza. Rispettare le scelte fatte. Finire ciò che si inizia,» o ancora: «Tu cosa vuoi fare da grande? Non lo so, e tu? Ci sto pensando. Bisogna decidere in che liceo andare l’anno prossimo, ci sono da fare le preiscrizioni, il tempo corre,» e la narrazione è pervasa da drammatizzazioni che cadono nel nonsense («Marius usa il navigatore; al Sacco c’è stato solo una volta, ma lui ha un enorme senso dell’orientamento. Se la caverà.»)

Qua e là ci sono capitoli apparentemente decontestualizzati, come la pagina, verso la fine, in cui Bazzi (autore e personaggio qui sembrano voler coincidere, più che convergere, in ossequio all’ideologia del verosimile) si lancia contro gli haters, riportando un’intera pagina di messaggi ricevuti dopo la pubblicazione della sua lettera di confessione, e di come non bisogna mollare davanti all’odio della gente.

L’impressione è in generale che Bazzi sia stato poco seguito in fase di editing, d’altronde è un esordiente, si vede la mancanza di una guida stilistica, ma questo importa fino a un certo punto; la domanda più pressante è un’altra: cos’è Febbre?

Non è un’autobiografia, genere che da copione assumerebbe interesse se scritta da un personaggio di una qualche rilevanza o contenesse elementi di spiccata originalità, ma non è nemmeno propriamente un memoir, che può e deve incentrarsi sulla vicenda di un uomo comune, ma anche prendersi carico di uno spaccato sociale, storico, qualcosa che trascenda la pura esperienza intima del suo protagonista.

Febbre vuole, in definitiva, essere una scrittura edificante, la celebrazione di un individuo (modello) che ha vinto le proprie paure; tuttavia non riesce mai a superare l’aspetto “informativo”, come se il tema e l’urgenza di dirlo a una determinata camera dell’eco contasse più della necessità di essere letto anche fuori dai confini della cultura gay, dove il libro resta perfettamente iscritto.

Bello sapere che c’è chi riesce a vincere le proprie paure – e qui ribadisco la mia stima per il coraggio di Jonathan dal punto di vista umano –, ma non mi pare davvero abbastanza per premiarlo come migliore libro dell’anno, se non appunto per motivi extra-letterari.

*** *** ***

Fotografia a corredo di Michela Bin, per gentile concessione dell’autrice. Nata a Trieste nel 1972, Michela Bin è laureata in archeologia medievale presso l’Università di Trieste; appassionata di fotografia da sempre, ha approfondito le sue conoscenze, tra gli altri, con Graziano Perotti.


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