La pratica della maternità surrogata tra storia, diritto, tecnica e morale

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«Utero in affitto»: un’espressione non neutrale, negativa, a prima vista imputabile ai tempi moderni, al progresso della ricerca scientifica. In realtà, la gestazione per conto terzi, pur con nomi e significati diversi, affonda le radici nell’antichità, in un mondo che ha lasciato poche tracce di sé, quantomeno attendibili. Tra i casi più noti, viene spesso citato il codice Hammurabi, una fra le più importanti fonti per lo studio della società babilonese, in cui si stabiliva (§ 146) che le mogli sterili fossero tenute a fornire al marito una schiava per il concepimento di un figlio. Alla luce di questa doverosa premessa, è quantomeno opportuno sgomberare il campo da inutili equivoci: la modernità non ha fatto altro che riprodurre modelli comportamentali tipici dell’uomo. Su questo tema, lo scorso 10 aprile, è sbarcato il parere della Corte Europea dei diritti umani (CEDU) circa rapporto tra la madre “intenzionale” (non biologica) e il minore nato da maternità surrogata. 

Prima di entrare nello specifico, occorre chiarire alcuni concetti di base. Esistono due tipi di surrogazione: quella tradizionale, che prevede l’inseminazione artificiale dell’ovulo della madre surrogata (che è quindi anche la madre biologica) e quella gestazionale, dove la madre surrogata si “limita” a portare avanti la gravidanza dopo che è stato impiantato nell’utero un embrione realizzato in vitro, che può essere geneticamente imparentato alla coppia committente ovvero a terzi donatori. È noto che il nostro ordinamento ha adottato da tempo un atteggiamento di fermo rifiuto nei confronti della pratica del cosiddetto «utero in affitto». La legge 19 febbraio 2004 n. 40 parla chiaro: «Chiunque, in qualsiasi forma, realizza, organizza o pubblicizza la commercializzazione di gameti o di embrioni o la surrogazione di maternità è punito con la reclusione da tre mesi a due anni e con la multa da 600.000 a un milione di euro.» Altrove, però, non è così. In alcuni Stati la surrogazione è tollerata. In altri invece è autorizzata, sia pur con gradazioni e regole diverse da Paese a Paese. In particolare, l’India avrebbe posto fine al business dell’utero in affitto e alla commercializzazione del corpo femminile a scopo riproduttivo, autorizzando viceversa quella altruistica, ossia tra membri della stessa famiglia e solo per le coppie di nazionalità indiana, spostate da almeno cinque anni, che non abbiano altri figli. 

Tutti i temi di bioetica aprono scenari inediti su cui ragionare, ma anche la schizofrenia legislativa che caratterizza la materia, oltre a incentivare il cosiddetto «turismo procreativo», crea un groviglio di questioni irrisolte, primo fra tutti quello di qualificare in termini giuridici il rapporto tra madre (non biologica) e bambino nato da maternità surrogata. Ammettiamo, infatti, che il parto avvenga in Russia e la madre intenzionale non biologica sia cittadina italiana e desideri portare il bambino in Italia. Quid iuris? È giusto ritenere che esista un legame di filiazione tra il bambino e la madre intenzionale non biologica? Oppure sono due perfetti estranei? Dalla risposta dipende il sorgere di tutta una serie di diritti e doveri reciproci. In Italia, il recente orientamento espresso dalla Corte di Cassazione (Sentenza Sezione Unite n. 12193 del 8 maggio 2019) è nel senso di respingere la richiesta di trascrizione nei registri dello Stato Civile italiano del provvedimento del magistrato straniero che accerti il rapporto di filiazione esistente tra un minore nato all’estero da una maternità surrogata ed un altro soggetto che non ha con lo stesso alcun rapporto di natura biologica. In quest’ottica, la Suprema Corte, con una decisione che ha suscitato particolare interesse anche in dottrina, ha statuito il seguente principio di diritto: «Il riconoscimento della efficacia del provvedimento giurisdizionale straniero con cui sia stato accertato il rapporto di filiazione tra un minore nato all’estero mediante ricorso alla maternità surrogata ed il genitore d’intenzione munito della cittadinanza italiana trova ostacolo nel divieto della surrogazione di maternità ex art. 12, 6° comma, L. 40/2004, qualificabile come principio di ordine pubblico in quanto posto a tutela di valori fondamentali, quali la dignità umana della gestante e l’istituto della adozione; la tutela di tali valori, non irragionevolmente ritenuti prevalenti sull’interesse del minore, nell’ambito di un bilanciamento effettuato direttamente dal legislatore, al quale il giudice non può sostituire la propria valutazione, non esclude la possibilità di conferire rilievo al rapporto genitoriale, mediante il ricorso ad altri strumenti giuridici quali l’adozione in casi particolari (art. 44, 4° comma, lett. D, L. n. 184/1983)». Nel caso affrontato dalla Cassazione la domanda giudiziale riguardava la trascrizione in Italia del provvedimento di un magistrato canadese che aveva accertato il rapporto di filiazione tra due minori concepiti attraverso la maternità surrogata con la collaborazione di due donne (una la donatrice degli ovuli, l’altra la c.d. gestante) e uno dei componenti di una coppia omosessuale. 

C’è poi da fare un’altra importante considerazione. Il contrasto tra ordinamenti espone il nascituro a un grave rischio. Dal punto di vista del bambino, è palese  che i suoi diritti verso il genitore intenzionale siano discontinui, o meglio, esercitabili a intermittenza, in alcuni Paesi sì in altri no, come se il mondo fosse una scacchiera impazzita. È paradossale ma va proprio così. Per contro, c’è chi sostiene che la pratica dell’utero in affitto risponderebbe a un bisogno collettivo prima ancora che individuale, un progetto riformista che cambierà il mondo in meglio per tutti. In questo senso si citano gli indubbi vantaggi che potrebbe ricavare il nostro Paese legalizzando la pratica della surrogazione gestazionale. In primo luogo, questa tecnica sarebbe in grado di rispondere in modo efficace e solerte sia alla richiesta di natalità che ai problemi demografici: è risaputo infatti che conviviamo da anni con il problema dell’invecchiamento della popolazione e con quello dell’infertilità. Per converso, una politica proibizionista non farebbe altro che negare i diritti fondamentali dell’uomo. Tutte le coppie infatti hanno diritto alla genitorialità, anche quelle che non sono fertili. Su queste premesse, il sistema deve intervenire e correggere i difetti della natura sfruttando i progressi della rivoluzione tecnico-scientifica. La fazione opposta potrebbe obiettare che avere dei figli non è mai stato un diritto, o che esiste l’istituto dell’adozione, ma sembra una via d’uscita troppo comoda. Non va poi trascurato un altro aspetto importante: se una donna ha deciso (per affetto, solidarietà o altri motivi) di fare da madre (biologica) per un figlio che non sarà suo, perché dovrebbe essere condannata? Con quale diritto lo Stato interviene? Perché non rispetta l’autonomia decisionale dell’individuo? La libertà di scelta è un patrimonio che le donne si tramandano di generazione in generazione e ogni donna deve essere libera di decidere cosa fare della propria gravidanza e dei propri figli. Chiaramente, il principio di libertà si scontra con altre responsabilità etiche: i contrari sono convinti che se lo Stato non intervenisse il nascituro verrebbe trattato come una proprietà da scambiare, ledendo in questo modo la sua stessa dignità. E l’individuo non può essere trattato come un bene qualsiasi. Si correrebbe poi il rischio che la madre surrogata diventi vittima di una mercificazione del proprio corpo. Le donne sarebbero infatti istigate a vendersi, soprattutto nei casi di povertà, dando alla luce una nuova forma di schiavitù. Eppure, qualcosa non quadra. Se una madre non può disporre liberamente del proprio figlio, per quale motivo un individuo può invece disporre dei propri organi oppure decidere di adottare un bambino? Non si rischia anche in questi casi una ingiuriosa mercificazione? Oltretutto, in diverse circostanze la surrogazione è un libero dono: le donne lo fanno per amore, non per soldi. E ancora: l’accusa avanzata da chi sostiene che la fecondazione in vitro provocherebbe diversi problemi (bambini down o affetti da altre patologie, bambini non conformi alle aspettative, nati prematuri, sottopeso, madri che cambiano idea o non rispettano le clausole del contratto) viene respinta con motivazioni altrettanto convincenti. Delegare ad altri la gravidanza permetterebbe alle donne fragili di evitare lo stress del parto, problemi di sovrappeso e ricadute psicologiche. Recentemente, in un’intervista rilasciata al quotidiano britannico “The Guardian”, il dottor Vicken Sahakian, che lavora alla Pacific Fertility Center di Los Angeles, ovverosia «la clinica più amata delle star di Hollywood», avrebbe ammesso che a ricorrere all’utero in affitto sarebbero soprattutto modelle, attrici, cantanti e in generale persone abbienti che desiderano un figlio ma intendono risparmiarsi accumuli di grasso, allargamento dei fianchi, cedimento dei tessuti, formazione di macchie, la deformazione del corpo e in una buona sostanza tutte le scocciature del parto e della gravidanza. Senza contare che molti artisti dello spettacolo non possono smettere di lavorare, cioè si trovano all’interno di una macchina che non può rallentare la propria corsa. Grazie alla pratica dell’utero in affitto si potrebbe poi effettuare una selezione a monte o «editing genetico» per dare alla luce esseri umani immuni da patologie e più resistenti. Una razza perfetta, superiore. I cosiddetti «super-baby», con tanto di certificato di salute. 

In questa babele di idee e visioni di vita, la Corte di Strasburgo, facendo leva sull’interesse del minore ad avere una famiglia, si è dichiarata favorevole, a certe condizioni, al riconoscimento legale del rapporto di filiazione tra madre intenzionale e bambino nato da maternità surrogata, aprendo le porte all’innovazione. Certo, non è una sentenza e i Paesi membri del Consiglio d’Europa saranno liberi di regolarsi come meglio credono, ma si è aperta una breccia, per quanto piccola, nell’edificio giuridico moderno, che potrebbe segnare il futuro della nostra civiltà. Non è una questione di robustezza: picconata dopo picconata qualsiasi muro può crollare. Ovviamente sono piovute anche critiche, dissensi. Tempo addietro, Papa Francesco, con l’esortazione apostolica postsinodale Amoris Laetitia, aveva già denunciato alcuni costumi inaccettabili per la Chiesa: «Ricordiamo anche la pratica dell’utero in affitto o la strumentalizzazione e mercificazione del corpo femminile nell’attuale cultura mediatica». Giorgia Meloni ha qualificato come abominevole la decisione della Corte, ritenendo la maternità surrogata una disumana forma di schiavitù. Sulla stessa linea, Matteo Salvini, nel corso di un intervento alla scuola pubblica della Lega, ha stigmatizzato l’utero in affitto come «la cosa più squallida che qualcuno possa ipotizzare». Dall’altra parte della barricata echeggia invece lo slogan femminista «l’utero è mio e lo gestisco io». Laura Boldrini, con una precisa presa di posizione, ha invece dichiarato: «La maternità surrogata è realtà e va normata. È un tema dei più delicati, però devo dirvi una cosa, noi dobbiamo prendere atto che questa pratica viene esercitata sia da coppie italiane eterosessuali sia da coppie italiane omosessuali, che la praticano all’estero. Tornano in Italia e non c’è una regolamentazione: ci va bene così? Vogliamo mettere la testa sotto la sabbia? Io penso, al di là della mia posizione, che se una cosa esiste nella realtà bisogna regolarla, normarla».

Su un argomento così delicato credo che sia opportuno evitare polemiche e limitarsi a un esame obiettivo della realtà, al netto delle diverse prospettive di analisi. Quello che è certo è la nascita di un diverso ordine morale, dove l’etica, anche quella pubblica di hegeliana memoria, è schiacciata dalle ragioni dell’economia e della tecnica, che rendono i sogni realtà. Esiste un limite oppure nasce un diritto per ogni desiderio? Qualunque sia l’opinione in proposito, il punto di equilibrio risiede nell’evitare di affrontare in modo individualistico una questione di grande rilevanza giuridica e sociale.

L’opera in fotografia a corredo del testo è tratta dalla serie “Ovoluzione” di Stefanie Oberneder: scultrice nata a Lindau, in Germania, nel 1976, l’artista vive e lavora a Carrara. Ha tenuto numerose mostre personali e collettive, in Italia e all’estero, ricevendo diversi riconoscimenti. Dal 2014 ha promosso e curato tutte le edizioni di “Carrara Studi Aperti”.


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