Macchine come McEwan. Quando la fantascienza è ridotta a favola moraleggiante

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Londra, 1982. John Lennon è sfuggito a Mark Chapman e ha appena lanciato un nuovo aIbum con i Beatles; Jimmy Carter è fresco di secondo mandato alla Casa Bianca dopo aver sconfitto Reagan, mentre il governo della Thatcher vola in caduta libera – insieme all’economia britannica tutta – dopo la disastrosa sconfitta nelle Falkland, costata la vita di quasi tremila soldati. Ma soprattutto, Alan Turing, uno dei matematici più brillanti del ventesimo secolo, eroe della Seconda Guerra Mondiale, anziché togliersi la vita ha guidato il progresso tecnologico dell’ultimo trentennio fino alla creazione di un vero e proprio uomo bionico.

In questa realtà cupa e controfattuale si muove Charlie, trentaduenne brillante ma in perenne stallo – si è rassegnato a vivacchiare comprando e vendendo titoli in rete – che decide di investire un’improbabile eredità nell’acquisto di Adam, uno dei venticinque umanoidi appena lanciati sul mercato. Charlie è mosso dalla sua curiosità per la tecnologia e lo studio antropologico, ma anche e soprattutto dal desiderio di qualcosa da condividere con Miranda, la sfuggente vicina di casa della quale è innamorato.

L’arrivo di Adam sarà l’inizio di una bizzarra convivenza a tre. A differenza di Charlie e Miranda, Adam non ha un passato che ne ha intaccato i principi etici e morali, ed è privo della principale risorsa di sopravvivenza del genere umano: la capacità di autoingannarsi, attribuire alla realtà significati arbitrari, approssimativi, ma utili, e poi elevare le utilità a scala (mobile) di valori.

Questa è la fondamentale differenza tra le macchine di Turing e gli esseri umani, ed è la principale ragione per la quale i “colleghi” di Adam si tolgono la vita uno dopo l’altro, schiacciati dal peso delle ingiustizie del mondo nel quale sono finiti.

Almeno all’inizio, non pensare a Dick è impossibile, per quanto una grossa differenza salti subito all’occhio: a McEwan non interessa creare un mondo parallelo che stia in piedi. Le ucronie che dissemina tra le pagine non sono niente più che strizzate d’occhio compiaciute – Kennedy si è salvato a Dallas! L’ultimo album dei Beatles è commerciale! I laburisti hanno soffiato alle destre il territorio del populismo! La disoccupazione è al 17%! Brexit! – ciò che segue è un discorso filosofico sulla condizione umana.

Il problema di Macchine come me sta proprio nell’ossessivo bisogno di McEwan di dire la sua sui massimi sistemi, al punto di non lasciare nulla alla deduzione del lettore e trasformare il proprio romanzo, per lunghi periodi, in un trattato didascalico dell’uomo di fronte all’intelligenza artificiale («[I robot] non riuscivano a capirci, perché noi stessi non ci capiamo. Non conoscendo la nostra mente, come avremmo potuto progettare la loro?»). Ed è pur vero che di intuizioni potenti ce ne sono, prima fra tutte lo sguardo cupo verso le barriere protettive che edifichiamo per mantenere il nostro equilibrio mentale, morale, ma che ci negano per pregiudizio/presupposto la possibilità di conoscerci in maniera più profonda e disincantata; McEwan però è troppo ansioso di mostrarci il suo arsenale, ci prende per mano, continua a girarsi verso di noi per assicurarsi che lo stiamo seguendo, e ogni volta che lo fa il romanzo perde vigore narrativo e ci fa venire voglia di gridargli di non badare al lettore, di lasciarci fare un giro nel suo giardino delle meraviglie senza farsi vedere.

Forse per lo stesso motivo – il bisogno di concettualizzare, di lanciare un messaggio dentro un romanzo –, Charlie e Miranda non riescono mai ad abbandonare la propria bidimensionalità. Lui è un belloccio brillante, senza arte né parte e un po’ dannato; lei la ragazza della porta accanto (bellissima e misteriosa, ovviamente, ma anche dolce e sensibile). Quindi si innamorano. Due stereotipi ambulanti, due funzioni narrative con cui è impossibile empatizzare; il rappresentante del genere maschile e femminile con flussi di coscienza da rivista patinata: «Riempire [il vuoto] con una paternità avrebbe rappresentato una fuga. Avevo l’esempio di certe amiche più vecchie di me che si erano fatte mettere incinta quando nient’altro aveva funzionato. Non che avessero avuto dei rimpianti ma, una volta cresciuti i figli, per loro non c’era stato più nulla.» Davvero abbiamo bisogno di sentirci dire questo, in un romanzo? Oppure l’intreccio è già liofilizzato per la riduzione cinematografica?

Alla fine, il personaggio più umano di tutti è proprio il robot, nel suo idealismo tanto solido quanto fragile, nella sua solitudine esistenziale e nel suo tentativo disperato di capire le nostre insanabili contraddizioni: un momento da Zadig di Voltaire che però rompe il cliché pedagogico proprio perché resta sotto traccia, delegato all’intelligenza deduttiva del lettore. 

In conclusione, di fronte a Macchine come me viene spontaneo chiedersi se sia possibile far coesistere nelle stesse pagine una riflessione esistenziale generale con un apparato di personaggi vivi, contraddittori, dei quali ci importi qualcosa. McEwan riesce a salvare solo il primo dei due elementi, mentre altri, prima di lui, hanno avuto decisamente più fortuna col romanzo di fantascienza. Houellebecq, in Le particelle elementari, è riuscito nell’intento, facendo convivere la distopia della creazione di un nuovo genere umano destinato a soppiantarci con protagonisti pieni di umanità, tare innominabili e perversioni esilaranti nelle quali è impossibile non ritrovarci. Il congegno narrativo di Macchine come me, da questo punto di vista, dà l’idea di non essere riuscito a nascondere sé stesso, perché la costruzione favolistica viene sì descritta come tale, un fondale di cartapesta, ma l’andamento è quello moraleggiante della favola e al suo interno personaggi, ordito, biografie, relazioni non riescono mai a superare i limiti del racconto di genere, come invece ci aspetteremmo dall’autore de Il giardino di cemento. Tuttavia è una buona notizia che un sismografo del suo valore abbia colto un elemento di novità e di differenza nella narrazione controfattuale, perché significa che la ricerca della Wildworld sta andando nella direzione giusta anche sul piano internazionale.

*** *** ***

Fotografia a corredo di Michela Bin, per gentile concessione dell’autrice. Nata a Trieste nel 1972, Michela Bin è laureata in archeologia medievale presso l’Università di Trieste; appassionata di fotografia da sempre, ha approfondito le sue conoscenze, tra gli altri, con Graziano Perotti.


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