Le corna stanno bene sulla De Lellis (ma pure su di me!)

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“Tremo. È aprile, ci sono 24 gradi e io tremo. Ho due felpe e due coperte addosso, la primavera fuori e il gelo dentro. Non mangio. Non parlo. Non piango. Non mi lavo da tre giorni e non mi sono neppure cambiata le mutande. Fumo sigarette. Ne finisco una e ne accendo un’altra.”

Così inizia “Le corna stanno bene su tutto (Ma io stavo meglio senza!)”, il libro di Giulia De Lellis che racconta la fine della storia d’amore con Andrea Damante. I due si erano conosciuti negli studi televisivi di “Uomini e Donne”, lui tronista lei corteggiatrice: l’amore era scattato sotto le luci affascinanti dei riflettori e lo sguardo attento di Maria De Filippi, bravissima come sempre, per poi proseguire su Instagram, nelle stories e nei post che celebravano la loro relazione invidiabile, davanti a svariati milioni di follower. Fino al tradimento, che viene sviscerato in queste pagine.

C’è uno speciale rilascio di endorfine nel cervello, quando abbiamo la possibilità di indugiare sulle sofferenze altrui, scoprirne i dettagli più sordidi.

Una sera di gennaio, mi ero ritrovata seduta sul pavimento del bagno a casa di mia madre, con il phon puntato addosso senza che riuscissi a calmare gli spasmi e i tremiti; ma non versai una lacrima, quasi il problema fosse davvero il freddo e non mio marito. Io e lui eravamo in pausa di riflessione, ovvero quel periodo che di solito precede la rottura. 

«Non so più se ti amo,» mi aveva detto al telefono, dopo l’ennesimo litigio nel pomeriggio. Aveva sonno e il cellulare scarico: sarebbe andato a letto, anche se erano solo le nove, con l’idea di richiamarmi il giorno seguente; ma dopo nemmeno mezz’ora il suo nome apparve di nuovo sul display.

«Pronto?» lui non rispose ma in cambio sentii il vociare indistinto, ma inconfondibile, di una donna. Era la sua tasca che mi aveva telefonato, mentre lui era fuori con lei.

«Stai almeno attento che non ti partano le chiamate.» Con questo messaggio, la nostra relazione terminò: in seguito, lui non mi cercò né mi implorò di perdonarlo, a parte qualche chiamata sporadica che ignorai ma di cui forse non era convinto neanche lui.

“Deve dimostrarmi che è dispiaciuto, che è pentito, che si è reso conto di essere uno stronzo che brucerà all’inferno. Deve dimostrarmi che gli trema la terra sotto ai piedi. Che la sua vita ora fa schifo senza di me. Che ha paura.“ Giulia De Lellis, con le sue amiche, era spietata: come io con le mie. Ma mio marito, non diversamente dall’ex della corteggiatrice, non si pentì; anzi, continuò a frequentare la ragazza con cui mi aveva tradito.

Presto scoprii che la mia rivale era un cliché così scontato che se fosse il personaggio di un romanzo verrebbe considerato poco realistico: giovane, seducente anche se un po’ volgare, con quelle gonne corte, i jeans attillati, le tette in vista e la bigiotteria a poco prezzo. Con le mie amiche ci scherzavo sopra: non valeva nemmeno il paragone. Eppure emanava qualcosa che io avevo perso da tempo, anche se non ero certa di cosa fosse e neanche se lo immaginassi io oppure fosse qualcosa di reale. A mio marito doveva essere sembrata un bocciolo fresco, nuovo di rugiada nella terra scura e inaridita che aveva seppellito a colpi di recriminazioni, urla, insulti, la nostra relazione.

La studiavo con devozione maniacale, quasi attraverso lo schermo avessi potuto assorbire la linfa vitale che ne sprigionava e che ormai, a quanto pareva, a me faceva difetto. Memorizzavo ogni suo gesto, ogni suo sguardo, notavo che aveva la tendenza a rivolgere gli occhi verso il basso e mi chiedevo se guardava anche lui così, se a lui piacesse la sua sottomissione, mi chiedevo di cosa parlassero. Presi a controllare il suo profilo appena sveglia e per ultima cosa prima di andare a letto. Ascoltavo le sue playlist su Spotify, la mattina, prima di uscire per lavoro, e la sera convincevo le mie amiche a frequentare gli stessi locali dove andavano lei e le sue amiche. Creai un paio di profili finti su Instagram, così le potei seguire tutte senza dare nell’occhio.

Una collega mi parlò di Reports+, l’applicazione che serviva per scoprire chi guardava il nostro profilo o chi scaricava le nostre foto. Il nome che avevo seguito fino a quel momento prese ad apparire per primo tra la lista dei miei stalker più accaniti: io, dunque, interessavo anche a lei.

Per Giulia De Lellis la rinascita avvenne grazie alla sua forza interiore e all’aiuto di amici e parenti. Per me si consumò sotto lo sguardo vigile della donna che odiavo. Ero dimagrita molto per la rottura e tornai attivamente in palestra: così iniziai a postare delle foto per testimoniarlo, accompagnate da frasi allusive circa un mio rinnovamento interiore. 

Per una storia di Insta – un “boomerang” dove eseguivo degli squat davanti allo specchio –, perfino mio maritò si sbilanciò con un cuore. Non risposi, e la sera stessa postai l’immagine di un tavolo apparecchiato per due e una bottiglia di vino già mezzo bevuta.

Il nome di mio marito raggiunse quello della sua nuova fidanzata, sul podio dei miei seguaci più accaniti: al vertice di questo triangolo virtuale in cui loro erano solo le basi inconsapevoli, presi a splendere.

Scaricavo le immagini da Google, Pinterest o qualsiasi piattaforma in cui avrei potuto trovare gli scatti che immortalavano la vita che volevo mostrare loro. Quella che immaginavo che lei avrebbe invidiato.

Mio marito passò dai cuori ai commenti, con qualche domanda buttata là per caso, tanto per attaccare bottone: «Tutto bene?» oppure «I cani, come stanno?»

Una mattina ero al lavoro e lei postò la foto di un croissant con la geo-localizzazione di un bar dalle parti della mia vecchia residenza con lui. Accampai una scusa con i colleghi e mi avviai.

Al mio ingresso, trovai il mio ex marito seduto a un tavolino, lo sguardo perso in un pensiero che ormai non valeva nemmeno la pena di indovinare. 

Quando i suoi occhi si alzarono su di me, le ciglia e gli angoli della bocca si sollevarono.

«Che ci fai, qui?»

«Ero in zona, e tu?»

«Niente,» lui si guardò attorno, «facevo colazione da solo.»

Poi spostò la sedia per farmi spazio. «Dai siediti, facciamo due chiacchiere.»

Dopo un’ora, al caffè erano seguiti un paio di bicchieri di vino e poi un gin-tonic: così lui mi raccontò che quella mattina avevano litigato di brutto. «Non riesco a scoparla,» mi fissò negli occhi. «Non ci riesco, non so perché, ho provato perfino le pillole, ma con lei nulla. E dire che si impegna, le prova tutte, l’altro giorno…»

Mi tappai le orecchie e mi alzai in piedi. «Basta così.»

Lui mi prese la mano. «Scusa, ok, sono ubriaco. È che con te è facile tutto: scopare, parlare.»

Un brivido mi attraversò il corpo, un guizzo elettrico che mi scosse.

Nel giro di qualche minuto fui da lui, in quella casa che era stata mia ma che adesso odorava di lei, un misto di cipria, sigarette e profumo troppo speziato. Respirai a fondo.

Il sesso fu ancestrale, selvaggio, crudo.

Ci smezzammo una sigaretta. Poi, mi alzai.

Anche Giulia De Lellis cedette con Damante a una notte di sesso che si trasformò nel tentativo di rattoppare una relazione ormai finita. Lei non riusciva più a fidarsi, io riprendevo fiducia.

Il sesso l’aveva fatta sentire sporca, umiliata; io mi ero sentita ringiovanita, potente.

Ma la sua è una storia di rinascita, la mia no.

Io divenni l’amante di mio marito.

Ci vedevamo in modo clandestino, passavo senza lasciare traccia nella mia casa, andavamo a cena fuori città senza postare nulla sui social. Una sera in cui avevamo bevuto una bottiglia di champagne, mi aveva confessato che lei era così ossessionata dall’idea di fare sesso con lui, che ormai solo il pensiero lo rivoltava. Non riusciva a finire un discorso che lei gli si avvinghiava al collo e tentava di baciarlo, mentre lui non poteva mettersi alla guida che lei gli infilava la mano sulla patta dei pantaloni. Più i tentativi si facevano insistenti, più il suo cazzo non ne voleva sapere di collaborare; lei arrivava a casa sua con la lingerie sotto al cappotto e prima ancora di chiudere la porta lo lasciava cadere in pianerottolo, ma il suo coso non si muoveva di un millimetro; se si svegliava col turgore mattutino, al solo trovarsela accanto subito gli si sgonfiava. Così lei era diventata paranoica, era convinta che lui la tradisse come aveva tradito me: gli si presentava in casa a tutte le ore, gli controllava il telefono. 

Avrei dovuto sentirmi perlomeno infastidita da quei discorsi, ma la verità è che ero assetata di dettagli: uno strano calore liquido si allargava dentro di me se lo immaginavo sfiorare i suoi seni sodi, che strizzava in quei completi intimi da centro commerciale.

Lui mi accarezzò il viso, poi sorrise: «Mi sa che il mio cazzo funziona solo con te.»

«Allora è con me che dovresti stare.»

Lui annuì.

Mi misi i jeans sulla pelle nuda, lo guardai: «Non trovo le mie mutande.»

Lui alzò le spalle: «Lasciale qui, vediamo che succede.»

Quella settimana trascorsi tutti i giorni davanti alla palestra di mio marito, dove si era iscritta anche lei.

Conoscevo gli orari e passai nel momento in cui stavano uscendo, lo salutai con un cenno della mano poi accostai a bordo della strada fingendo di rispondere a una telefonata.

Lei mi raggiunse di corsa.

«Erano tue le mutande, vero?»

Fuori dallo schermo, tutto l’allure degli ultimi mesi si sciolse sotto i raggi del sole, quel pomeriggio di marzo. Davanti a me, una ragazzina bassa e pallida. Il suo cappottino sintetico brillava sotto la luce impietosa, mentre lei indossava una larga cintura, intorno alla vita, che le produceva uno strano rigonfiamento sul sedere, tagliava a metà quelle gambe non troppo lunghe, con le cosce grosse. Così non fu difficile chiederle: «E tu chi sei?»

Le spiegai che io e mio marito eravamo in pausa di riflessione, non avevo idea che lui la stesse frequentando. Lei spalancò la bocca e mi chiese di entrare nella mia macchina per il tempo di una sigaretta. La feci accomodare, gliene offrii una: l’afferrò con le unghie laccate di rosso, che spuntavano dalle dita corte, tozze. 

Mi raccontò nei dettagli ciò che ormai conoscevo alla perfezione e l’ascoltai. Mi finsi scioccata dalle menzogne che lui le aveva raccontato, inorridita per come ci aveva preso in giro entrambe. Giurammo solennemente di non parlargli più. Lei mi sorrise, un ghigno che non illuminava gli occhi.

Mio marito mi scrisse un messaggio che diceva solo: “Grazie.” 

Misi il cellulare nella borsa prima che lei vedesse il display: «Adesso devo proprio andare, devo tornare al lavoro, sai.» Lei volle stringermi in un lungo abbraccio. «Restiamo in contatto, questa cosa ci ha legato.» In quella stretta, lei si sbriciolò tra le mie braccia e il mio odio svanì.

La sera stessa tornai a casa. Ma già dal giorno dopo e poi in quelli successivi presi a scrivermi con lei, ascoltavo il suo risentimento, aggiungevo dettagli sordidi a quelli che le avevo raccontato la prima volta. Ogni tanto li inventavo, li esageravo un po’: non riuscivo proprio a interrompere quel filo della narrazione che mi intrigava. Lei ricambiava e io indugiavo mentalmente anche sui più insignificanti particolari del loro rapporto: una fitta bruciante che portava un brivido di piacere mi trafiggeva ogni volta che ascoltavo di una cena in un ristorante stellato, quando eravamo ancora sposati e lui le aveva versato un cucchiaino di caviale dalle tette per succhiarlo via. 

A mio marito non dissi mai che ero ancora in contatto con lei, non avrebbe capito. Per lui lei era svanita, morta; le sue ceneri il fertilizzante sopra al quale la nostra relazione era rinata. Non poteva sapere che la terra stava inaridendo di nuovo, un processo lento ma instancabile che ci corrodeva mentre lei si allontanava da lui.

A lei non dissi di essere tornata insieme a lui: temetti di perdere la linfa selvaggia che mi teneva in vita, in quel momento.

Arrivò anche l’estate e il vento caldo bruciò gli ultimi steli. Io e marito giacevamo senza forze sdraiati sul divano, sotto al getto del condizionatore, i visi pallidi illuminati dalla luce bluastra del televisore: proiettava uno di quei film vecchi che danno quando il palinsesto è a riposo. Appena lui si addormentò, gli feci scivolare via il cellulare dalle mani e lo sbloccai.

Digitai il suo numero, lui l’aveva cancellato insieme a tutta la cronologia dei messaggi, ma lo conoscevo a memoria.

«Mi manchi,» le scrissi, ed ero sincera per la prima volta.

«Anche tu,» rispose, e lo era anche lei.

Le diedi appuntamento per la sera dopo, in un bar dove io e lui saremo dovuti andare insieme. Avrei poi inscenato una litigata poco prima dell’appuntamento, perché lui si ritrovasse lì solo e incazzato, nell’umore ideale per incontrare la sua giovane fiamma.

Mi nascosi tra la folla: il loro flirt leggero mi faceva sentire un formicolio nelle spalle, intorno al collo. Lei gli sfiorò la gamba, si scostò i capelli dal viso più volte, si sporse per prendere una cannuccia e intanto sfiorargli il viso con una tetta. Un fiotto caldo mi inondò e dovetti andarmene.

Lo aspettai a casa, in piedi davanti alla porta d’ingresso. Lo afferrai con le unghie dietro alla nuca, poi lo annusai, sul viso, intorno al collo, tra i capelli e l’incavo delle orecchie. L’aroma di cipria e sigarette troppo speziato mi travolse e spalancai gli occhi.

Lui aggrottò le sopracciglia, scosse la testa: «Non è successo niente, tu non c’eri e…»

Io gli appoggiai l’indice sulle labbra: «Continua a farlo.»

I nostri vestiti caddero, sopra al pavimento freddo dell’ingresso, e ci lasciarono pronti a germogliare ancora.

“Invece sono serena. Provo una pace inspiegabile. Mi sembra di profumare di nuovo, come se la mia anima fosse più pulita, finalmente liberata.” Questo è il pensiero di Giulia De Lellis mentre camminava lontano dal suo ex, e sentiva di rinascere.

«Chiamiamola qui, una sera, e io vi osserverò da dentro all’armadio.» Mentre ondeggiavo sopra mio marito, già pregustavo il momento di quella oscurità.

*** *** ***

L’opera in fotografia a corredo del testo è “La cornuta” di Stefanie Oberneder: scultrice nata a Lindau, in Germania, nel 1976, l’artista vive e lavora a Carrara. Ha tenuto numerose mostre personali e collettive, in Italia e all’estero, ricevendo diversi riconoscimenti. Dal 2014 ha promosso e curato tutte le edizioni di “Carrara Studi Aperti”.


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