Giovannino e Dj Fabo: fecondazione e suicidio assistiti

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Alice era un medico obiettore e nella famiglia dei suoi sogni c’era posto per due figli: un maschio e una femmina. Il destino invece le aveva concesso un solo erede, Mattia, di una bellezza quasi soprannaturale, ipnotica. Un maschio con grandi occhi neri e un sorriso sempre radioso che accentuava le fossette nelle guance. Aveva sedici anni quando tornando dal corso di nuoto rimase coinvolto in un incidente stradale. Alla guida c’era il padre, che dopo aver perso il controllo dell’auto aveva centrato un palo della luce per poi rimbalzare contro un muro. Le cause erano ancora da chiarire: forse un colpo di sonno, oppure, come sembrava più probabile, un attimo di distrazione al cellulare. Mattia aveva riportato un trauma cranico ed era morto una notte di settembre, poco prima dell’alba.

Si era occupata di tutto lei: dagli annunci funebri al funerale. Al marito, ancora ricoverato, non aveva detto nulla. Anzi, ogni volta che entrava nella sua stanza lo rassicurava sulle condizioni del figlio: «Mattia sta meglio, ha ripreso a mangiare.» Poi, quando non riusciva più a trattenere le lacrime, se ne andava accampando una scusa.

Un pomeriggio, mentre il cielo virava purtroppo verso il brutto tempo, il marito era tornato alla carica. «Accompagnami da Mattia, voglio vederlo, anche solo un minuto.» 

«Non puoi ancora alzarti, i medici te l’hanno detto. Sei stato fortunato: se i soccorsi non fossero arrivati in tempo non saresti qui a lamentarti.» Non era morto, ma le probabilità che restasse paralizzato dal bacino in giù erano alte. Solo con un lungo e complicato intervento chirurgico avrebbe forse recuperato l’utilizzo delle gambe.

Quella sera stessa, Alice vide un programma televisivo che raccontava la storia di un quarantenne che aveva trasformato l’amore per la musica in un lavoro. Fabiano Antoniani, meglio noto come Dj Fabo, era rimasto vittima di un incidente stradale: nutrito con un sondino, non muoveva né braccia né gambe ed era affetto da cecità bilaterale irreversibile. Nonostante i gravissimi deficit fisici, aveva conservato intatte le facoltà intellettive e nel pieno esercizio delle stesse, dopo anni di terapie e nessuna speranza di miglioramento, aveva deciso di porre fine alla sua esistenza. Per realizzare il suo ultimo desiderio era stato accompagnato in Svizzera da un esponente del Partito radicale, Marco Cappato, che al rientro si era autodenunciato per aiuto al suicidio. La morte si era consumata alle 11:40 del 27 febbraio 2017, con un cocktail di farmaci iniettato nelle vene del giovane grazie al dispositivo da lui stesso azionato con la bocca. 

Alice non avrebbe mai permesso una cosa del genere, era contraria ai suoi princìpi. E soprattutto al giuramento di Ippocrate: «Non somministrerò ad alcuno, neppure se richiesto, un farmaco mortale, né suggerirò un tale consiglio.» Nel corso del programma in tv era saltato fuori come ogni Stato affrontasse il problema dell’eutanasia con un diverso approccio culturale. Mancava una visione di insieme, ma d’altra parte latitava pure un significato condiviso dell’esistenza umana e dei suoi scopi. L’Olanda era stato il primo Paese al mondo a legalizzare, nel 2001, l’eutanasia e il suicidio assistito (due anni più tardi veniva approvato il “Protocollo di Groningen”, che disciplinava l’eutanasia infantile). Nel 2002 il Belgio aveva seguito l’esempio olandese, varando una legge sulla dolce morte e le cure palliative. Dal 2009 il Lussemburgo era diventato il terzo paese dell’Unione Europea a regolamentare l’eutanasia in favore di malati affetti da patologie considerate senza via d’uscita. In Svizzera, invece, il suicidio assistito era autorizzato solo se prestato senza motivi egoistici, e proprio in una clinica elvetica si era consumata la vicenda di Fabiano Antoniani

Per lei erano tutte stupidaggini, di cui non valeva neppure la pena parlare. La vita andava rispettata, sempre e comunque. C’era ben poco da discutere. Anzi, si era infuriata quando la conduttrice aveva letto con soddisfazione il comunicato dell’Ufficio Stampa della Corte Costituzionale, che aveva stravolto il paradigma del rapporto uomo-morte: la Consulta aveva sancito la non punibilità di chi agevola il suicidio di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile. Prima di decidersi a spegnere la televisione, ripiombando nella sua solitudine, Alice sentì parlare del famoso “dottor morte”, lo specialista della pillola della pace-eterna.

«Allora? Ti sei decisa?» 

«Smettila, non insistere!» 

«Smettila tu di fare la bambina.» Da una volta all’altra la voce di suo marito diventava sempre più bassa, qualcosa di simile a un gemito rauco e disperato.

«Adesso è meglio che dormi un po’.» 

«Come sta Mattia?» 

Quella volta lei non rispose, nascondendo i pensieri dietro una maschera di rughe. Ma quanto poteva durare quella messinscena? Cosa aspettava a raccontare la verità? Perché non gli vomitava addosso il suo odio? Era inutile girarci intorno: lo riteneva responsabile della morte di Mattia. Glielo aveva ripetuto fino alla nausea di non leggere o rispondere ai messaggi mentre guidava. Perché non le aveva dato ascolto? Perché?

Suo marito si sistemò il cuscino dietro la testa. «Sì, fai finta di non sentire…» Un minuto dopo iniziò a russare in modo abominevole. Lei lo guardò con disprezzo, finalmente libera di mostrare il suo reale stato d’animo. Fece un passo indietro e si sedette con le gambe accavallate, il busto rigido. Sentiva le palpebre pesanti e desiderava solo abbandonarsi a un sonno profondo, ristoratore, sgombro da quei pensieri che non le davano tregua. Non riusciva a togliersi dalla testa che lui e solo lui era la causa di tutti i suoi mali. Peccato che non potesse disattivare il cervello con la stessa facilità con cui si spegne un interruttore.

Da qualche parte arrivò alle sue narici un profumo delizioso, come se qualcuno avesse infornato una torta. Provò a indovinare: mele e noci. Erano mesi che mangiava poco o nulla, giusto il minimo indispensabile per sopravvivere; il più delle volte rosicchiava un cracker e beveva tre-quattro tazzine di caffè. Socchiuse gli occhi, si lasciò andare sulla sedia e senza accorgersene scivolò in quella fase del sonno in cui non si è del tutto svegli, ma nemmeno si dorme. Mentre i suoi nervi si distendevano, l’eco di un pianto angosciato echeggiò nella stanza, e quando si sporse dalla finestra vide due figure di spalle, una alta, l’altra minuta e grassottella, che camminavano guardandosi intorno come se temessero un agguato. Parlottavano sottovoce, e quando giunsero di fronte a una chiesa, si fermarono. 

Che combinavano? 

Di colpo, si ritrovò anche lei in strada, davanti alla chiesa.

«Lasciamo la cesta e andiamo.» 

L’uomo aveva parlato per primo.

La donna, due spanne più bassa, si portò una mano alla bocca, sembrava sul punto di scoppiare a piangere: «Verremmo puniti da Dio.» 

«Non c’è nessun Dio. Altrimenti non avrebbe permesso una cosa simile.»

«Stiamo commettendo un errore. Lasciamo perdere, torniamo a casa. Mi occuperò io di lui.»

L’uomo appoggiò a terra la cesta e spostò appena la coperta: «Lo vedi, è malato, sembra uno scherzo della natura, non guarirà mai.» 

Il bambino, avrà avuto sì e no quattro settimane, aveva la pelle coperta di squame, mentre le labbra ruotavano verso l’esterno.

«Ha solo la pelle secca, basterà ungerla con dell’olio.» Mentre parlava, lei agitava le braccia come se stesse nuotando.

Alice avrebbe voluto intervenire per spiegare che i figli non si abbandono, che i figli vanno amati e basta, ma non riusciva a muoversi. A malapena respirava, dentro una paralisi. Questa era la vita dei tetraplegici? Un peso tremendo le schiacciava il petto e impediva all’aria di entrare nei polmoni.

«Non vuoi capire, è un bambino imperfetto, nato da un errore di laboratorio. Dobbiamo liberarci di lui.»

«Come puoi parlare così? Cazzo, abbiamo cercato un figlio in tutti i modi!»

L’uomo diede un’occhiata al bambino, che nel frattempo scalciava e dimenava le esili braccia dalla pelle screpolata, spessa. «Mi meraviglio di te. Quante storie stai facendo: anche nell’antichità i padri sopprimevano i figli malati o deformi. Selezionare i migliori è l’unico modo per aumentare le speranze di vita della specie umana.» Lo stesso Seneca sosteneva che bisognava separare ciò che è valido da ciò che non può servire a nulla. «E poi siamo in troppi su questo pianeta, un bambino così sarebbe un peso per noi ma anche per la società.» Quando finì di parlare, guardò ancora una volta dentro la cesta, poi corse via.

«Addio Giovannino,» la donna lo seguì un istante dopo.

Alice rimase sola, circondata da un silenzio assoluto, da cui affiorò l’immagine del figlio. Era morto per uno stupido cellulare. A lei non era stato concesso di scegliere, anzi aveva pagato a caro prezzo gli errori degli altri. In quel momento comprese che forse il destino le stava offrendo la possibilità di salvare una vita umana. Provò ad avvicinarsi, ma una voce ovattata e lontana la fece sobbalzare sulla sedia: «L’orario delle visite è terminato, mi spiace.»

Dapprima guardò l’infermiera con aria perplessa, poi capì e sorrise: d’altra parte era impossibile che cose del genere accadessero nel mondo reale. Salutò suo marito e si preparò per uscire, ma come arrivò alla porta, un pianto convulso, disperato, che aveva qualcosa di familiare, riaprì i suoi dubbi. Che stesse sognando di nuovo? Era assurdo, irreale, eppure quella sensazione era viva, perfino tangibile. Sbirciò nel corridoio e scorse una figura piuttosto alta, in camice bianco, che camminava con le spalle curve e la testa rivolta in avanti, verso il fagottino che teneva in braccio. Alice si sfregò gli occhi, e mentre catturava la propria immagine riflessa nello specchio, provò a convincersi che fosse solo molto stanca, non poteva esserci nient’altro.

La situazione, tuttavia, a casa precipitò. All’improvviso, in cucina, mentre cercava nel frigo vuoto qualcosa da buttare sullo stomaco, sfogò tutto il suo malessere urlando, con una tale intensità che il pianto le provocò i conati di vomito. Provò anche a pregare, mentre si dibatteva contro il diavolo che aveva in corpo, ma si accorse di aver dimenticato le parole. Da quanto tempo non recitava un Padre Nostro? Si era mai confessata? Ormai dubitava di tutto. Dubitava anche di essere sveglia. La verità era che non sapeva più che cosa fosse giusto o no. Non aveva più certezze. Non le rimaneva niente. Di fronte a lei si apriva un futuro buio e senza senso. Cosa doveva fare? 

A completare l’opera e a riempirle la testa di strane idee ci pensò Michele, un collega fanatico di teorie morali, che le suggerì di leggere il parere espresso dal Comitato Nazionale per la Bioetica sul tema del suicidio assistito: «Una cosa è sospendere o rifiutare trattamenti terapeutici per lasciare che la malattia faccia il proprio corso; altra cosa è chiedere a un terzo, per esempio a un medico, un intervento finalizzato all’aiuto nel suicidio. Si tratta di affrontare due situazioni giuridicamente diverse.» Scoprì che il Comitato, attraverso la metafora del pendio scivoloso, aveva manifestato preoccupazioni e timori connessi a un uso distorto del suicidio assistito: «Secondo alcuni, una volta ammesso il suicidio medicalmente assistito in qualche tragico e sporadico caso, si finirebbe per scivolare nell’ammissione di modalità di anticipazione della morte anche per situazioni di demenza o di minorità, per le quali la capacità di consenso esplicito è più incerta. Diventerebbe poi difficile distinguere tra sofferenze fisiche e psicologiche, con il risultato di allargare tali condizioni, inizialmente ristrette a patologie inguaribili e sofferenze insopportabili, anche a persone con disagi psicologici come la depressione o la sofferenza esistenziale.» A riguardo, tempo prima, aveva letto sui giornali di una ragazza che in Olanda si era lasciata morire. Anche suo marito correva il rischio di essere ritenuto un malato di mente oppure affetto da qualche grave disturbo depressivo? Impossibile, il suo cervello era lucido e funzionava benissimo, quindi il problema non poteva nemmeno porsi. O forse sì? 

Rifletté tutta la notte e all’alba prese una decisione che non avrebbe mai pensato di poter soltanto elaborare.  Due ore più tardi, alzò il telefono e contattò il “dottore”. La conversazione non durò più di cinque, sei minuti, il tempo di concordare data e luogo dell’appuntamento.

Lo studio si trovava vicino a un parco giochi e a quell’ora c’erano solo due donne con i passeggini e un ragazzo che probabilmente aveva bigiato scuola.

«Capisco perfettamente la situazione, la malattia mentale è un problema gravissimo e spesso delegato soltanto ai familiari, che alle volte non hanno né i mezzi né il tempo o la testa per farsene carico.» 

«Esatto, mio marito non ragiona più e io non ce la faccio. Ci abbiamo provato in tutti i modi, ma non c’è stato niente da fare. È diventato un peso per sé e per gli altri.»

«Il suicidio assistito risponde proprio a queste esigenze e punta ad alleviare inutili e insopportabili sofferenze sia fisiche che psichiche, tuttavia dovremo fare degli accertamenti.» Dopotutto esisteva un protocollo che prevedeva lo svolgimento di esami, visite, colloqui. 

«Non abbiamo tempo per queste cose,» Alice allungò sulla scrivania un assegno in bianco.

L’uomo prima inarcò le sopracciglia, poi intascò l’assegno senza aggiungere altro.

In occasione della trasferta, Alice noleggiò un’ambulanza privata, con tanto di sosta al porto per permettere a suo marito di rivedere il mare.

In clinica, entrarono dentro una specie di navicella spaziale dotata di ogni genere di comfort: una cabina armadio, un tavolo da biliardo, una coppia di sedie pieghevoli in alluminio superleggero, un letto completo di lenzuola, coperta e cuscino, un set di oli per l’aromaterapia e un’ampia varietà di profilattici. 

«Nel giro di due settimane potrai di nuovo camminare.» La voce di Alice tremava appena.

Suo marito annuì col mento, poi firmò un foglio senza neppure leggerlo: «Quanto dura l’operazione?» 

Alice non lo ascoltò. Afferrò il documento dalle sue mani, chiuse gli occhi ed uscì dalla navicella. «Ora rilassati e non pensare a niente.» Poi pigiò un pulsante e nel giro di un minuto la capsula si riempì di azoto liquido, che a poco a poco annullò ogni cosa. L’ossigeno. I pensieri. I ricordi. Perfino gli errori, anche quelli imperdonabili.

*** *** ***

Fotografia a corredo di Michela Bin, per gentile concessione dell’autrice. Nata a Trieste nel 1972, Michela Bin è laureata in archeologia medievale presso l’Università di Trieste; appassionata di fotografia da sempre, ha approfondito le sue conoscenze, tra gli altri, con Graziano Perotti.


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