Avrei voluto vivere a Bibbiano

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Ho letto tanto, mi sono documentata: questa cosa di Bibbiano era su tutti i giornali. 

L’estate, caldissima, è iniziata a giugno con gli arresti nell’ambito di una inchiesta denominata “Angeli e Demoni”, un nome perfetto: da un lato i bambini, dall’altro i loro genitori. 

Bibbiano e la Val d’Enza, io non sapevo nemmeno dove fossero. Un paese come tanti, sembra. Eppure, ora si ritrova nominato ovunque: un bello scossone, per la cittadina e per il suo sindaco. E qui si parla di roba grossa: bambini sottratti ingiustamente alle loro famiglie, referti fasulli o esagerati, assistenti sociali e psicologi implicati in una rete di interessi economici, da non credere. Uno scandalo senza precedenti nel nostro Paese, a parte il caso di cui si era occupato il giornalista Pablo Trincia nella serie Veleno, “i diavoli della bassa modenese”, che però risaliva a vent’anni fa.

Un articolo del Sole 24 ore del primo agosto mi ha chiarito molti punti. La copia del giornale era usata e puzzava di fritto, ma meglio di niente: l’ho ficcata sotto il cuscino e me la sono studiata di sera, sotto le coperte. 

Pare che dietro l’inchiesta sui presunti affidi illeciti di Bibbiano ci sia un mondo che coinvolge circa 26mila bambini e ragazzi con genitori in difficoltà: «14mila accolti da famiglie diverse da quella di origine e 12mila collocati nei servizi residenziali per minorenni.» Un dato che rappresenta il 2,7 per mille del totale degli under 18 che vivono in Italia e a cui vanno aggiunti i minori stranieri non accompagnati, perlopiù inseriti in comunità. «L’incidenza degli affidi varia da un’area all’altra, senza differenze nette tra Nord e Sud Italia: le regioni dove gli affidi sono più frequenti sono la Liguria (con il 5,8 per mille dei ragazzi e bambini coinvolti) e il Molise (dove l’affido riguarda il 3,9 mille dei minori).» La regione dove vivo, il Veneto, non è nominata nell’articolo, ma penso si trovi agli ultimi posti. La fonte è una indagine a campione realizzata dall’Istituto degli Innocenti di Firenze per il ministero del lavoro: i dati risalgono al 2016, ma sembra che l’andamento degli affidi familiari e dei collocamenti nelle residenze per minori rimanga stabile, senza scarti particolari.

Proprio dai numeri è partita l’indagine della procura di Reggio Emilia sui presunti affidi illeciti di Bibbiano: troppi abusi sui minori rispetto alla popolazione. Il sospetto è che i servizi sociali – con relazioni false e prove manomesse – abbiano allontanato alcuni minori dai genitori, per consegnarli ad altre famiglie, a scopo di lucro. Impressionante.

Però poi la giornalista spiega che l’affido – in base alla legge 184 del 1983, modificata dalla legge 149 del 2001 – è una soluzione estrema, a cui la giustizia minorile si vede costretta quando la vita e l’educazione di bambini e ragazzi sono a rischio nelle famiglie d’origine. 

Quanto sia estrema, io l’ho toccato con mano. Non bastano motivi economici per decidere l’affido: in caso di bisogno si deve intervenire con sostegni che consentano ai genitori in condizioni di disagio di occuparsi comunque dei figli. I genitori naturali vanno aiutati in tutti i modi, con ogni mezzo, perché tengano con sé i loro bambini. L’eventualità dell’affido a terze persone pare sia decisa dai servizi sociali se c’è il consenso dei genitori (o di chi esercita la potestà o del tutore), ma l’esecutività del provvedimento viene stabilita dal giudice. Se invece genitori o tutori non sono d’accordo, a decidere è il tribunale per i minorenni. Tuttavia leggo che nella procedura urgente dell’articolo 403 del Codice civile, i servizi sociali decidono da soli e poi avvisano il tribunale dei minori: a volte a distanza di mesi; anni, magari.

Io l’avevo detto, alla maestra Loredana, che Martino era un bimbo molto impegnativo, al contrario del fratello. In tre anni, non una notte di sonno intera. La “notte” era solo un nome per l’abat-jour di plastica fucsia che restava accesa in cameretta e traghettava quel poco di luce fino al mattino dopo: immobile l’aria, il chiarore, l’attesa battente; di cosa, poi.

Alla lunga, è dura. Perdi concentrazione e ingrassi in punti strani del corpo, sui polpacci, sotto il mento. Un pomeriggio di novembre ho parcheggiato davanti a casa nostra, ho sganciato le cinture dei seggiolini e infilato a fatica gli scarponcini a Martino, che nel tragitto se li era tolti, e saltava scalzo sul sedile davanti per non farsi prendere. Quando sono riuscita ad afferrarlo ha strillato, mentre alzava al massimo il volume dell’autoradio: a quell’ora per fortuna non c’è nessuno, siamo solo io e i bambini nel raggio di un chilometro. Gli altri lavorano. Davanti alla porta di casa ho aperto il borsello dove tengo le chiavi, la mia copia, quella col portachiave a cuore. Non c’erano, strano. Ho cominciato a svuotare la borsetta sul pavimento ghiacciato, mentre Martino già correva per prendere suo fratello a palle di neve in faccia. Adesso giacevano, sparsi per terra, la mia cipria, due lecca-lecca, gli assorbenti viola per le perdite, il portafogli, la boccetta di gocce naturali, il blister della pillola, un ciuccio del piccolo e gli occhiali da sole. 

Le chiavi, no. Ho controllato ovunque, anche nel cortile. Ho telefonato a Federico per tredici volte, non rispondeva. Ho sudato e aspettato; con le gambe che tremavano mi sono seduta a guardarli giocare.

«Mamma, ho fame!»

I lecca-lecca mi hanno dato altri venti minuti di tregua ma poi è subentrata la sete, e non avevo nient’altro con me. Ho detto ai miei figli di succhiare un po’ di neve e mi sono alzata a fatica, per fare un pupazzo insieme a loro. Ne è venuto uno alto un metro, con pezzi di legno come bottoni e occhi di sasso: siamo diventati bravi, per realizzarli sfruttiamo ogni elemento disponibile, compreso il berretto di lana rossa di Flavio. 

«Ho freddo mamy!»

Lì Martino si è pisciato addosso. L’ha fatta tutta, nelle mutande e nei pantaloni, ma non avevo cambi con me: di solito lo faccio, ma non quel giorno. Martino batteva i denti, Flavio ha svuotato la sua vescica dietro l’acero e siamo tornati in macchina, per ripararci. Ho acceso il motore e portato al massimo la ventola del riscaldamento, fuori facevano cinque gradi sotto zero. Per fortuna è finita con Federico che è arrivato sgommando, è sceso dal Suv e ci ha aperto la porta di casa, furioso. Ho poi ritrovato il mio mazzo in fondo al borsello, ma non l’ho detto a nessuno.

Un paio di settimane dopo, ho deciso che non avrei né lavato né cambiato Martino e Flavio per cinque giorni di fila. Li ho mandati in classe con la stessa tuta e gli stessi slip dal lunedì al venerdì, e Federico nemmeno se ne è accorto. Sapevo che dalla scuola mi avrebbero segnalata, non potevano non farlo, stavolta. Infatti, a metà dicembre, mi ha convocata l’assistente sociale del distretto. 

Aveva i capelli intrisi di fumo e la gola dura. Le mancava un incisivo.

«Non ce la faccio più. Prendeteli voi.» 

Non mi si può accusare di essere stata evasiva.

Qualla ha ascoltato, annuito, sorriso.

«È solo un po’ depressa, signora: non è facile essere madre, oggi. Ma può contare sul nostro aiuto. Ci mandi anche suo marito la prossima volta.»

La soluzione proposta: percorso di sette incontri in Consultorio familiare, insieme Federico, per scavare nell’infanzia di ciascuno, scavare nella coppia, scavare nella famiglia. Così, scava scava, si arriva al fango: la terra non è mai fertile, lì sotto, comunque la si pensi. Infatti mio marito, al settimo colloquio, non si è presentato. A quel punto è arrivato il primo decreto, perché gli assistenti sociali avevano rilevato, bontà loro, un certo grado di conflittualità, seppure inespressa, fra noi genitori, e una lieve depressione nella sottoscritta: «Affidamento ai Servizi,» recita l’atto giudiziario, «di entrambi i minori.» Ma che vuol dire? Ce li ho sempre io, dove sono i Servizi?

Prendeteli voi, teneteveli voi! Avevo un bel ripetere, anche in tribunale, alla giudice che mi aveva convocata in udienza. Era una bionda, giovane e sottile, fresca di tirocinio: di quelle che credono nel futuro della nazione ma di figli non ne hanno, sono sicura.

«Forza, signora. Seguite le indicazioni dei Servizi e tutto tornerà a posto.»

«Giudice, la scusi, non sa quello che dice. Noi amiamo i nostri figli, faremo qualsiasi cosa per loro.» 

Marito del cazzo. Quanto è successo dopo è solo colpa sua.

Sono passati sei mesi, l’insonnia è peggiorata. 

Una notte, dormivo nella stanza dei ragazzi, perché Federico era in trasferta per lavoro. Mi sono svegliata di soprassalto e ho visto Martino che passeggiava trascinando i piedi: ho creduto avesse bisogno di andare in bagno.

«Amore, aspetta, ti accompagno io!»

Non mi ha risposto. 

«Mamma, che succede?» 

Anche Flavio ha il sonno leggero e la cameretta, per tre, è molto piccola. L’ho rassicurato: suo fratello doveva fare pipì e forse poteva averne bisogno anche lui.

«Andiamo!»

Lì mi sono accorta che Martino aveva gli occhi chiusi. Camminava in diagonale, scalzo sulle piastrelle ghiacciate: saltellava sul posto e poi, per qualche istante, si bloccava. Quindi riprendeva il suo percorso, preciso e identico al precedente. Ma non era sveglio. Muoveva le labbra in modo rapido e concitato, come se confabulasse con chissà chi, anche se non un suono gli usciva dalla gola e davanti a lui non vedevo nessuno.

«Che fa, mamma? Fa finta?»

«Amore, che fai? Amore!» Me l’hanno detto, che non si svegliano i bambini in quello stato, perché può essere pericoloso. Mi sono avvicinata e gli ho sfiorato un braccio, che era rigido, irriconoscibile: lui si è ritratto bruscamente e ha tentato una fuga attraverso la porta dell’armadio. 

Il fratello lo ha bloccato e quello, mentre si dimenava con rabbia, ma sempre in silenzio e con le palpebre semichiuse, lo ha spinto con la fronte contro la specchiera: il cranio di mio figlio ha prodotto il tonfo sordo di una boccia colma d’acqua, gettata con violenza sulla nuda terra. 

«Mi ha fatto male, mamma!» Flavio è scoppiato a piangere.

D’improvviso, il terrore mi ha allagato il ventre. «Flavio, non toccarlo!»

Ho gridato, senza accorgermene: non sapevo chi fosse, quell’essere robotico, invasato, in marcia perpetua. L’ho afferrato per un braccio e l’ho trascinato sul lettino. Lui mi ha morso, mi ha sputato, mentre ancora si divincolava. Con un ginocchio, su cui ho impresso tutto il peso del mio corpo, ho avuto infine la meglio: si è disteso e ha preso a russare. Ma non è stato facile. 

Ho chiamato l’assistente sociale, ancora e ancora. 

Altro decreto, che dichiarava i genitori «sospesi». Proprio così! Genitori sospesi, ma Martino ancora con noi. Con me, anzi, perché mio marito lavora tutto il giorno. Mi hanno mandato una educatrice in casa, però: due ore al dì, cinque giorni su sette. Una signora gentile e distinta, sulla cinquantina. Un po’ scialba, forse, ma sempre attenta: mi dava un sacco di consigli su come gestire i miei ragazzi, e li coccolava sempre. Ma mica ci restava, lei, dopo il tramonto.

Una delle ultime notti, ho trovato Martino che passeggiava in salotto, con gli occhi spalancati, inespressivi. L’ho preso per mano e l’ho condotto nella sua stanza. Ha funzionato, si è lasciato guidare docilmente e si è seduto sul letto; mi sono avvicinata per baciarlo sulla tempia e solo allora ho sentito che mormorava delle parole oscene, come se fosse posseduto.

«Taci!» col palmo gli ho chiuso le labbra. Lui mi ha piantato i canini nella carne, ho ancora il segno. Per non svegliare Federico, non ho gridato: mi sono limitata a staccare la mano dalla sua bocca, che ho colpito piano, a pugno chiuso. Per la forza che devo avergli impresso, il piccolo è ricaduto sul cuscino e si è messo a russare. Sono rimasta a controllarlo fino all’alba e a mio marito non ho raccontato nulla.

Se avessi vissuto a Bibbiano le cose sarebbero andate diversamente, ne sono certa. Me li avrebbero portati via entrambi, alla prima segnalazione, senza tante storie: un bel rapporto dell’assistente sociale, due dettagli ben sistemati, e Martino sarebbe oggi in una casa famiglia o con qualche bravo genitore alternativo. Potrei persino fargli visita, di tanto in tanto, senza dover portare i fiori a una fotografia.

Invece è andata che ho dovuto annientarlo, una mattina, con un laccio ben stretto intorno al collo: dopo, si sono presi anche Flavio e l’hanno messo non so dove. 

Io finalmente libera di dormire, almeno.

Mi resta l’adrenalina da smaltire, contando le piastrelle del soffitto. Col mio stesso sudore tento di cancellare il segno della corda dalle mani, ma non va via. Ora dopo ora il giorno passa, segue la notte placida, e la pace è un posto dove nessuno mi chiama o chiede di me.

Io l’avevo fatto capire a tutti, del resto. Ma niente. 

A Bibbiano, no: lì una madre poteva sperare nel sollievo immediato; fino all’inizio di quella stupida indagine, almeno.

*** *** ***

Immagine a corredo del testo per gentile concessione di Diego Barsuglia: nato a Pisa nel 1978, è fotografo professionista dal 2006. Da qualche anno si occupa principalmente di inquinamento, salute e consumo del suolo. I suoi lavori sono stati pubblicati tra gli altri su Sette, Repubblica, l’Espresso, El Mundo, El Paìs, Rai e Sky. 


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