Contro il depotenziamento del letterario la riscoperta del modello selvaggio

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Sarà che vengo dalla lettura della biografia di Wittgenstein, uno che consigliò al suo allievo più dotato di fare il meccanico anziché il professore universitario (e l’allievo gli diede retta!), ma leggendo un paio di saggi di Saul BellowLa cultura dei chiostri, Lo scetticismo e la profondità della vita – mi si sono accese un sacco di luci che non smettono più di pulsare. Bellow muove al sistema accademico statunitense un attacco feroce ma sottile; gioca sull’ambiguità perché proprio sull’ambiguità il sistema che lui bombarda si basa. Egli afferma in sostanza che negli ultimi decenni (scrive negli anni ’60, oggi è peggio) gli accademici (professori, critici e operatori culturali che poi vengono spruzzati ovunque) si sono impossessati dei classici vecchi e nuovi della letteratura, prendendone la forma e lasciando da parte la sostanza (che no, se non sei Joyce non coincidono); e soprattutto controfigurandoli (il termine è mio e me lo tengo io).

Intendo questo: molti studiosi, secondo Bellow, hanno sfruttato per esempio l’ardito lavoro di devastazione della forma/romanzo dei grandi della prima metà del Novecento – Joyce, Proust, Céline, Kafka, Musil ecc – per comunicare a sé stessi e agli altri che il romanzo era defunto; anziché storicizzare hanno assolutizzato, anziché cavalcare l’onda l’hanno spenta. Invece, sostiene Bellow, stava solo finendo una modalità della forma/romanzo: non quella narrativa, come ci hanno ripetuto fino alla noia, bensì quella che prima struttura e poi destruttura l’ego. In altri termini: non stavano finendo le storie, stavano finendo un metodo per raccontarle e al contempo i metodi per distruggere il vecchio metodo.

Il fraintendimento però – voluto o involontario – ha determinato e determina una serie di “gusti” che poi diventano estetica condivisa che poi diventa cultura, e se non sei nel cerchio difficilmente verrai preso sul serio poiché per l’appunto la serietà è uno degli abiti più credibili che indossa l’accademia, e l’esclusione è uno dei suoi pugni di ferro in guanto di velluto.

Non basta; l’accademia, a parere di Bellow, ha incorporato anche i modelli più selvaggi Lawrence, Melville, Dylan Thomas – svuotandoli del loro senso reale e mantenendo la superficie, estraendo dalla disperazione un cinismo scettico che finge di “ribellarsi alla vita” mentre conserva lo status quo. Puoi farti la tua stagione all’inferno di seconda mano e poi dedicarti con enorme serietà al prossimo cocktail, o alla prossima teoria. Puoi proclamare la bancarotta della trascendenza per bocca di chi ti ha preceduto in carne e sangue. Puoi «trasformare l’immaginazione in opinione e l’arte in cognizioni». In un certo senso strisciante e perentorio, è passato il concetto che fare l’artista contasse più di esserlo.

Bellow racconta che un suo amico assai colto e bizzarro implorava, per uscire dal pantano ideologico, un ritorno all’antica possessione; qui Bellow cita Rimbaud, definendolo una figura druidica e non un poeta «classico». E però, come viene insegnato Rimbaud? E come viene insegnato il suo silenzio? Ancora 15 anni fa, quando frequentavo con discreta assiduità il dipartimento di uno dei più insigni rimbaldologi italiani, chiesi a un giovane professore perché Baudelaire fosse stato canonizzato ben più di Rimbaud, pur essendo Rimbaud la versione 2.0 di Baudelaire, la prolunga “assolutamente moderna” del già inquieto genio baudeleriano e il vero profeta dell’odierna alienazione (oggi qualsiasi impiegato delle poste o medico o assicuratore vive il dramma intimo di Rimbaud).

Il professore mi rispose, con sorprendente franchezza, che Rimbaud genera un disagio profondo (domandate ai grandi poeti del ‘900 se non è così!), e che è troppo alto il rischio di studiarlo sul serio e fino in fondo. Il giovane professore coglie il punto, così come lo coglie Jean Louis Bory quando afferma che se Rimbaud venisse studiato adeguatamente le classi salterebbero per aria.

Il commercio con la follia va gestito con cautela, ma se lo ignoreremo diventeremo pazzi. Sarei curioso di sapere come mai ho portato Rimbaud nelle scuole, nelle università, nelle associazioni culturali, nelle librerie ottenendo puntualmente reazioni di meraviglia, stupore, gratitudine e, non di rado, lacrime. Rimbaud non tocca il nervo estetico bensì il fattore umano, risveglia cioè l’irriducibilità che appartiene a ciascuno di noi, la parte non addomesticabile che torna di continuo a formulare la domanda che Bellow pone in cima alle urgenze di ogni vero artista: chi è l’io umano? È chiaro che il sedicenne Arthur sarebbe in grado, oggi come allora, di incenerire qualunque dipartimento universitario in cinque minuti, ed è altrettanto chiaro che dieci volte su dieci chi lo studia è meno intelligente di lui. E tuttavia io so, per umile esperienza personale, che lo si può trattare per chi è stato davvero e godere del suo potere liberante, discernendo il veggente dal trafficante d’armi, la follia da manicomio dall’illuminazione, la tenebra dalla luce.

Simili a lui nella modernità, e altrettanto depotenziati, ce ne sono parecchi fra i “poeti”: Mandel’stam, Celan, la Cvetaeva, Trakl, Hart Crane, e addirittura prima di lui la Dickinson e l’immenso e povero Hölderlin, solo per citarne alcuni che segnano faglie storiche evidenti. Ma bisogna anzitutto togliere gli occhiali che indossiamo senza spesso nemmeno accorgercene, per vedere. Afferma un appassionato Bellow che «il distacco dalla tradizione è il frutto non del capriccio o di un disegno politico, ma di una necessità interiore». E non vale ripeterci che noi non siamo Bellow; ogni Bellow viene per ricordarci ciò che tendiamo a dimenticare.


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