Proteggersi dalla vita: il racconto profetico di Primo Levi, dalla distopia alla realtà

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È andata più o meno così: dopo aver messo i bimbi a letto, nel bel mezzo del mio sacrosanto cazzeggio serale sui social, inciampo sulla foto di una bella ragazza con una specie di tromba tatuata sull’avambraccio. Conoscevo quel simbolo e sapevo che si riferiva a L’incanto del lotto 49, l’unico romanzo – forse il più accessibile – che avessi letto di Thomas Pynchon. La tipa doveva essere una seguace del mitico autore americano, visto che in una delle foto successive posava accanto alla copia di un altro famoso romanzo di Pynchon, Vizio di forma, di cui ricordavo vagamente l’uscita qualche anno fa dell’adattamento cinematografico con Joaquin Phœnix.

Nel sonnolento tentativo di cercare la trama di quel libro, dopo essere passato dal purgatorio della “pagina di disambiguazione” di Wikipedia, finisce che atterro su quella di un omonimo libro di Primo Levi, pubblicato nel 1987. Con mia grande sorpresa scopro che si tratta di una raccolta di racconti fantascientifici di cui non avevo mai sentito parlare – mea culpa: conoscevo solo i suoi testi legati agli orrori dell’Olocausto –, le cui trame, in quanto a creatività, non avevano nulla da invidiare allo Stephen King di “A volte ritornano” o alle migliori raccolte di Richard Matheson o di Philip K. Dick.

La prima storia del libro si intitola “Protezione“. È un racconto ambientato in una sorta di futuro distopico in cui a causa della presenza di micro-meteoriti nell’atmosfera, tutti gli abitanti del pianeta sono costretti per legge a indossare degli scomodi e pesanti scafandri protettivi, e sono obbligati a farlo anche in casa, anche mentre cenano o quando sono davanti alla tv (!?), a tal punto che la loro vita quotidiana ne risulta irrimediabilmente sconvolta.

Protezione” è un racconto di Primo Levi ambientato in una sorta di futuro distopico in cui a causa di micro-meteoriti nell’atmosfera, tutti gli abitanti del pianeta sono costretti per legge a indossare degli scomodi e pesanti scafandri protettivi

Il valore profetico del testo – o comunque i parallelismi con la situazione che stiamo vivendo ormai da quasi un anno –, sono più che mai evidenti.

Innanzitutto, c’è l’aspetto per così dire “mediocre” della minaccia: se il Covid-19 è un «virus senza qualità», come lo ha giustamente definito Michel Houellebecq, cioè pericoloso ma non così tanto, anche i micro-meteoriti del racconto di Primo Levi rappresentano una specie di catastrofe “attenuata”, che minaccia la Terra da vent’anni senza tuttavia aver mai prodotto danni considerevoli (venti morti in tutto, forse) e la cui intensità può addirittura diminuire durante l’estate, permettendo – per esempio – alle persone di poter aprire le visiere dei loro caschi per respirare, mangiare e chiacchierare più agevolmente.

In secondo luogo, c’è il dubbio che serpeggia – quello che oggi è considerato come una prerogativa esclusiva dei cosiddetti complottisti –, secondo cui uno stato di emergenza permanente possa far comodo a qualcuno; che in fin dei conti il potere economico approfitti del “miracolo della catastrofe” per rigenerarsi e che certa stampa – nel testo si parla del quotidiano “L’Araldo” –, sia connivente con esso, che gonfi le statistiche e contribuisca in malafede ad alimentare la strategia della paura.

E infine, c’è l’aspetto che a mio avviso è il più inquietante, ovvero la capacità così tipica della natura umana di abituarsi a tutto, anche al più violento dei soprusi, o addirittura di trasformare le coercizioni imposte dal potere in un alibi per non dover affrontare le proprie paure. «Mi sento protetta come in una fortezza – dice a un certo punto Elena, uno dei protagonisti del racconto, a proposito della sua corazza –, e alla sera, quando vado a letto me la tolgo malvolentieri.» All’interno della camicia di forza che le è stato imposto di indossare, Elena si sente protetta «contro tutto. Contro gli uomini, il sole, il vento, la pioggia. Contro lo smog e l’aria contaminata e le scorie radioattive. Contro il destino e tutte le cose che non si vedono e non si prevedono. Contro i cattivi pensieri e contro le malattie e contro l’avvenire e contro me stessa.»

C’è l’aspetto che a mio avviso è il più inquietante, ovvero la capacità così tipica della natura umana di abituarsi a tutto, anche al più violento dei soprusi, o addirittura di trasformare le coercizioni imposte dal potere in un alibi per non dover affrontare le proprie paure.

Un racconto vertiginoso, lungimirante e poetico insomma, che oggi come non mai ci obbliga non solo a guardarci intorno, ma anche a guardarci allo specchio.


Protezione

di Primo Levi

Marta finì di rassettare la cucina, mise in funzione la lavatrice, poi accese una sigaretta e si stese sulla poltrona, seguendo distrattamente la televisione attraverso la fenditura della visiera. Nella camera accanto Giulio era silenzioso: stava probabilmente studiando, o scrivendo il compito di scuola. Da oltre il corridoio giungevano a intervalli i fragori rassicuranti di Luciano, che giocava con un amico.

Era l’ora della pubblicità: sullo schermo, straccamente, si susseguivano incitamenti, consigli, lusinghe: comprate solo aperitivo Alfa, solo gelati Beta; comprate solo lucido Gamma per tutti i metalli; solo elmi Delta, dentifricio Epsilon, abiti fatti Zeta, olio Eta inodoro per le vostre giunture, vino Teta… Nonostante la posizione disagiata e la corazza che le dava noia alle anche, Marta finì coll’addormentarsi, ma sognò di dormire coricata sulle scale di casa, per traverso, mentre accanto la gente saliva e scendeva senza curarsi di lei. Si svegliò allo sferragliare di Enrico sul pianerottolo: non si sbagliava mai, era fiera di riconoscere il suo passo da quello di tutti gli altri inquilini. Quando fu entrato, Marta si affrettò a rimandare a casa l’amico di Luciano, e apparecchiò la tavola per la cena. Faceva caldo, e del resto il telegiornale aveva annunciato che la pioggia di micrometeoriti attraversava un periodo di scarsa attività: perciò Enrico sollevò la visiera, e gli altri lo imitarono. Così era anche più agevole portare il cibo alla bocca, invece che attraverso la piccola valvola stellare che si sporcava sempre e poi puzzava. Enrico interruppe la lettura del giornale per annunciare: – Ho incontrato Roberto sulla metropolitana: era un pezzo che non ci vedevamo. Verrà stasera con Elena a trovarci.

Arrivarono verso le dieci, quando già i ragazzi erano a letto. Elena portava uno splendido completo in acciaio AISI 304, con saldature ad argon quasi invisibili e graziosi bulloncini a testa fresata; Roberto, invece, indossava una corazza leggera, di modello inusitato, flangiata lungo i fianchi e singolarmente poco rumorosa:

– Me la sono comperata a marzo, in Inghilterra: sì, sì, è inossidabile, tiene benissimo la pioggia, ha tutte le guarnizioni in neoprene, e si mette e si toglie in non più di un quarto d’ora. – Quanto pesa? – chiese Enrico, senza molto interesse. Roberto rise, senza imbarazzo. – Già, è qui il punto debole. Sapete bene, si tende all’unificazione, qui nel Mercato Comune ci siamo già arrivati, ma laggiù, per quanto riguarda i pesi e le misure, sono sempre indietro di qualche passo. Pesa sei chili e ottocento: le mancano solo duecento grammi per essere in regola, ma vedrete che nessuno se ne accorgerà; o magari, tanto per la legalità, mi farò riportare un pochino di piombo qui dietro il collo, dove non si vede. A parte questo, tutti gli spessori sono in ordine, e ad ogni buon conto mi porto sempre dietro il certificato d’origine e il disegno quotato, in questa fenditura accanto alla targa. Vedete? È fatta apposta: è una di quelle piccole idee che rendono facile la vita. Gli inglesi sono gente pratica.

Marta non poté fare a meno di lanciare un’occhiata di sfuggita alla corazza di Enrico: lui no, poveretto, non sarebbe mai andato a fare acquisti a Londra. Portava ancora la vecchia armatura in lamiera zincata dentro la quale, tanti anni prima, lei lo aveva conosciuto: decorosa, certo, senza un briciolo di ruggine, ma che fatica per la manutenzione! E poi, la lubrificazione: non meno di sedici ingrassatori Stauffer, di cui quattro ben fuori mano, e guai a saltarne uno o a saltare una domenica, se no strideva come un fantasma di Scozia; c anche, guai a esagerare, o altrimenti lasciava il segno su tutte le sedie e le poltrone come una lumaca. Ma Enrico sembrava che non se ne accorgesse: diceva di sentircisi affezionato, e parlargli di cambiare era un’impresa disperata, anche se, pensava Marta, si trovano adesso degli equipaggiamenti in regola con la legge, pratici, quasi eleganti, e che se li paghi a rate non te ne accorgi neanche.

Sbirciò la propria immagine, riflessa nella specchiera. Anche lei non era il tipo di donna che passa la giornata dall’estetista e dal parrucchiere, eppure rinnovare un poco il suo guardaroba le avrebbe fatto piacere, non c’era dubbio: in fondo si sentiva ancora giovane, anche se Giulio aveva ormai sedici anni. Marta seguiva distrattamente la conversazione. Roberto era di gran lunga il più brillante dei quattro: viaggiava molto e aveva sempre qualcosa di nuovo da raccontare. Marta notò con piacere che cercava di incontrare il suo sguardo: un piacere puramente retrospettivo, perché quella loro faccenda era ormai vecchia di dieci anni, e a lei non sarebbe più successo niente, lo sapeva, né con lui né con altri. Un capitolo chiuso: se non per altre ragioni, almeno per via di quella fastidiosa faccenda della protezione obbligatoria, per cui uno non sapeva mai se aveva a che fare con un vecchio o con un giovane, con un bello o con un brutto, e tutti gli incontri si limitavano ad una voce e al balenare di uno sguardo, cose già note, si va sul sicuro e si evitano quei buchi di silenzio che dànno tanto disagio.

– Io però – disse Elena, – devo dire che nella corazza ci sto bene. Non è che io lo abbia letto sui giornali femminili: ci sto bene proprio, come si sta bene a casa.

– Ci stai bene perché la tua corazza è bella: anzi, scusa se non te l’ho detto ancora, ma è una meraviglia, – disse Marta con sincerità. – Non ne ho mai vista una così ben disegnata: sembra proprio fatta su misura.

Roberto si schiarì la voce, e Marta comprese di avere commesso una gaffe, anche se non tanto grave. Elena rise, con indulgente sicurezza: – Lo è, fatta su misura! – Volse uno sguardo riconoscente a Roberto, e aggiunse: – Lui, sai, ha certe conoscenze nell’ambiente dei carrozzieri di Torino… Ma non è per questo che dicevo di starci bene dentro: starei bene in qualunque corazza. Alla storia degli MM ci credo poco, anzi niente, e sentire che è tutta una montatura per fare guadagnare soldi alla General Motors mi fa venire una gran rabbia, eppure… eppure sto bene con e male senza, e come me ce ne sono tanti, ve lo posso assicurare.

– Non prova nulla, – disse Marta. – Hanno creato un bisogno. Non è il primo caso: sono molto bravi a creare bisogni.

– Non credo che il mio sia un bisogno artificiale: se fosse così, chissà quanta gente ci sarebbe che si fa sorprendere senza corazza, o con una corazza non regolamentare; anzi, non avrebbero neppure votato la legge, o la gente avrebbe fatto una rivoluzione. Invece io… è un fatto: io mi ci sento… come dire?

Snug, – intervenne Roberto, ironico: per lui non doveva essere un discorso nuovo.

– Come? – fece Enrico.

As snug as a bug in a rug. È difficile da tradurre, e in fondo a una visiera. Lei non aveva mai capito come una legge così assurda avesse potuto essere votata: eppure Enrico le aveva spiegato più volte che i micrometeoriti erano un pericolo vero, tangibile, che da vent’anni la Terra ne stava attraversando uno sciame, e che bastava uno solo ad uccidere una persona, penetrandola in un istante da parte a parte. Si riscosse accorgendosi che Roberto stava proprio parlando di quell’argomento:

– Anche voi ci credete? Beh, se leggete sempre e soltanto “L’Araldo” non c’è da stupirsi, ma ragionateci sopra, e vi accorgerete che è tutta una montatura. I casi di “morte dal cielo”, come si dice adesso, sono pochi in misura ridicola, non più di venti veramente accertati. Gli altri sono emboli o infarti o altri accidenti.

– Ma come! – disse Enrico: – Solo la settimana scorsa si è letto di quel ministro francese che era uscito per un attimo sul balcone senza armatura…

– È tutta una montatura, vi dico. L’infarto è sempre piú frequente, ed è un’istituzione che non serve a nessuno: in regime di pieno impiego, hanno semplicemente cercato di utilizzarlo, è tutto qui. Se chi gli tocca non ha corazza, è stato un MM, un micrometeorite, e si trova sempre il perito settore compiacente; se la corazza c’è, allora resta un infarto, e nessuno ci fa caso.

– E tutti i giornali si prestano?

– Tutti no: ma sapete bene com’è, il mercato dell’auto è saturo, e le linee di montaggio sono sacre: non si possono fermare. Allora si convince la gente a portare corazze, e si mette in prigione chi non obbedisce.

Non erano novità: erano considerazioni che Marta aveva già sentite, e anche più di una volta, ma si sa bene che spesso anche tipi brillanti come Roberto si trovano a corto di argomenti, e del resto, a ripetere anche un po’ offensivo: ma non tutti i bugs sono scarafaggi.

– Ad ogni modo, – riprese Elena, – per me è così: mi ci trovo snug come uno scarafaggio in un tappeto. Mi sento protetta come in una fortezza, e alla sera quando vado a letto me la tolgo malvolentieri.

– Protetta contro che cosa?

– Non so: contro tutto. Contro gli uomini, il vento, il sole e la pioggia. Contro lo smog e l’aria contaminata e le scorie radioattive. Contro il destino e contro tutte le cose che non si vedono e non si prevedono. Contro i cattivi pensieri e contro le malattie e contro l’avvenire e contro me stessa. Se non avessero fatto quella legge, credo che mi sarei comperata una corazza lo stesso.

Il discorso stava prendendo una piega pericolosa: Marta se ne accorse, e lo ricondusse in acque piú tranquille narrando la storia del professore di Giulio, il quale era così avaro che, piuttosto di gettare via la sua armatura tutta arrugginita, l’aveva verniciata col minio di dentro e di fuori e si era presa una intossicazione da piombo. Poi Enrico raccontò il caso di quel carpentiere di Lodi che aveva preso molta pioggia, i bulloni gli si erano bloccati, e lui aveva un appuntamento, e la ragazza gli aveva tagliato addosso la corazza col cannello ossidrico e l’aveva mandato all’ospedale.

Infine si salutarono: Roberto si sfilò il guanto ferrato per stringere la mano nuda di Marta, e Marta provò un piacere intenso e breve che la riempì di una tristezza grigia, luminosa, non dolorosa: questa tristezza le rimase addosso a lungo, le tenne compagnia dentro la sua corazza, e l’aiutò a vivere per parecchi giorni.


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