Franchini e il cinismo empatico

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Antonio Franchini. Ricordo di averlo visto per anni in giro alla Festa del Libro di Torino. Aveva la posa da muratore appena docciato, bello fermo sulle gambe un poco divaricate da judoka, vestito di marroni e grigi. Occhialoni a goccia da ipermetrope. Coi suoi grandi occhi dietro alle lenti spesse guardava di traverso e sembrava stufo di tutti gli scrittori viventi sulla terra. Era sempre solo, mica come certi editor o direttori di collana dotati di codazzo perenne e uffici stampa, sottopagati, al seguito. Lo guardavo e mi faceva simpatia perché il segno di potere, evidente, era quella sua libertà. Libertà da codazzi e gente alle calcagna che ti alita alle spalle.

Chissà quanti autori ha mandato in analisi, frustrati – meglio sarebbe dire frustati – per il rifiuto di un loro inedito. Grande Franchini! Nel 1996 a Colorno parlò seduto al tavolo come relatore, in una di quelle cose che non si usano più, ma che si chiamavano conferenze di letteratura. Con lui c’era qualche scrittore, un ex Br che aveva appena fatto il libro su Dante, qualche critico letterario, un autore sardo, un recensore cattolico, un editore romagnolo visionario e – dicevano i più – geniale. Qualcuno di loro c’è ancora, altri sono spariti. Franchini aveva già scritto il libro di quattro novelle intitolato “Camerati” e i racconti “Quando scriviamo da giovani“. Con “Camerati” aveva vinto il Premio Bagutta, riconoscimento tra i più generosi, con ricchi premi e cotillon. La precisione della scrittura di questa manciata di racconti mi sembrava fuori dal comune, con una particolare capacità di sguardo.

Scrive: «Era salito in cima a un mucchio di detriti e nello spiazzo di sotto vedeva una tenda. Una vasta tenda militare perfettamente tesa da tre alti pali conficcati nel terreno. Sul telone si aprivano delle vere e proprie finestre, incorniciate di fettuccia e trasparenti…» Le descrizioni di Franchini sono pennellate su fondo oro e via andare. Precise, strambe, perfette per un lettore esigente. Ancora non era in commercio “Quando vi ucciderete maestro?” ma di lì a pochi mesi sarebbe uscito. Forte, perché Franchini, nel mio immaginario, aveva in mano la narrativa italiana. Per chi non lo sapesse, l’autore lavora negli alti vertici dell’editoria, e poteva pubblicare per chiunque. Che ne so, Einaudi, Giunti dove lavora adesso, la stessa Mondadori dove lavorava, finanche Adelphi, e invece pubblicava per Sottotraccia, Avagliano, piccoli editori, insomma. Pensai lo facesse per fiducia e amicizia nei confronti di persone all’interno di queste case editrici. Oppure era aristocratica sprezzatura, raffinato snobismo.

Al di là di tutto, probabilmente Franchini crede molto nell’amicizia, lo si evince dai suoi libri. Prendo a caso da “Quando vi ucciderete maestro?” «Ecco il mio amico Gaetano Cappelli che racconta come gli venne in mente di scrivere un romanzo giallo», oppure nel più recente libro “Il vecchio lottatore e altri racconti postemingueiani”: «Al Monumentale e a quell’idea mi aveva iniziato un mio amico, il poeta Antonio Riccardi».

I libri di Franchini sono pieni di amici e uomini non illustri, ammirevoli, con vite eccellenti e sgangherate. In giro si sapeva che Franchini amava le discipline marziali, gli piacevano la boxe e gli sport duri, ma da lì a fare un libro in cui i riferimenti e i paragoni per parlare di scrittura e letteratura prendessero le mosse dal combattimento corpo a corpo, mai l’avrei immaginato. In “Quando vi ucciderete maestro?” sembrava prendere la parola una sorta di “Meister Eckhart” laico e la storia mi piaceva. Anzi, mi serviva. Nella raccolta di racconti “Il vecchio lottatore” c’è pure un pregevole racconto in cui si mettono a confronto letteratura e tauromachia.

A Colorno Franchini iniziò un discorso nel quale smitizzava l’autorialità, lo scrittore tuttomaiuscolo. L’immagine dell’ autore assorto nei suoi pensieri ispirati da chissà quale forza o musa per lui era un enorme malinteso. Rafforzò la sua argomentazione con un esempio strano, citando un autore che non ricordava nessuno: Renzo Barbieri. Disse chiaro e tondo che Barbieri, coi suoi libri dedicati a yuppie, modelle alle sfilate, ricchi manager e sboronate da magnati, era riuscito a raccontare meglio di chiunque altro gli anni che al tempo ci lasciavamo alle spalle. Tutti muti. Se uno avesse voluto approfondire gli anni ruggenti del craxismo e dell’epoca reaganiana, Mamma Ebe, Verdiglione e Muccioli di San Patrignano avrebbe trovato più materiale tra le pagine di Renzo Barbieri che in qualunque altro intellettuale, italiano, coevo. Gelo. Quanto godevo a vedere le facce stitiche della gente tra il pubblico. Quanto era bello osservare che nessuno, seduto al tavolo, tra citazioni da iniziati e placiti cassinesi, opponeva resistenza a queste tesi suggestive, impopolari e concrete.

Soprattutto, Franchini si dimostrava dissacrante. Li aveva fregati tutti abbassando la guardia e poi un fulmineo diretto ben assestato; invece di citare la Compiuta Donzella o Jacopo Mostacci della Scuola Siciliana parlava dell’importanza di Barbieri e dei suoi romanzi. Che teneri erano tutti quei critici e scrittori e poeti ed editori. Si sarebbero meritati un caldo abbraccio, invece erano andati giù come pugili suonati. Sbeng!Poi nelle poche foto ufficiali s’è iniziato a vedere un occhiale diverso. Non più quelli a goccia, ma piccoli occhiali dalla montatura nera.

Forse la cosa è coincisa con l’uscita del libro “Cronaca della fine” dedicato allo scrittore Dante Virgili, oppure la vecchia montatura a goccia s’era spaccata con un pugno beccato in qualche scontro sul ring di chissà quale magazzino adibito a palestra. “Cronaca della fine” è la biografia appassionante su uno sconosciuto scrittore nichilista votato alla distruzione. Al tempo si parlò di questo pittoresco autore milanese, Virgili, perché aveva profetizzato l’abbattimento delle Torri gemelle. Lo strillone ne esaltava le doti paragonandolo a Céline. Il libro di Franchini ne raccontava le peripezie editoriali e umane attraverso documenti, schede editoriali, vecchi articoli e lettere. Così come in un altro libro racconta, tra autobiografia e biografia, la figura del giornalista Giancarlo Siani ucciso 35 anni fa dalla camorra. In Franchini c’è quest’attitudine al pedinamento letterario, all’indagine.

Qualche anno prima però era uscito “Acqua, sudore, ghiaccio” in cui l’autore ha raccontato le dure pagaiate tra flutti e discese in canoa, le scazzottate tra pugili, le sciate sulla neve difficile da domare. Negli anni torna, regolarmente, il suo alter ego Francesco Esente. Di fatto sembra che Esente, così come evoca un po’ il nome, guardi sempre un po’ tutto dispensato dal giudicare. Con gli occhi di Francesco Esente spesso le imprese dei compagni di viaggio hanno un loro pregevole patetismo. Si capisce con chiarezza la sottile complicità tra trionfo e disfatta. Nei libri di Franchini c’è sempre una sorta di epica a bassa intensità, in cui i lottatori, i toreador, gli scalatori, i nuotatori, i soldati compiono imprese ardue, cui la maggior parte delle persone non ne capisce il senso. Questa sorta di eroi rimane sempre nelle categorie minori, nelle retrovie delle loro discipline, e sono colti nell’attimo prima di soccombere, ritirarsi, fallire, finire. A ogni pagina si respira la volontà di essere sapienti, razionali, distaccati dalle miserie del mondo, ma Franchini non ha nessun bisogno, nessuna voglia di rendere le cose più grandi di quel che sono. Anche perché, il gallo nel pollaio, è lui. Mica cazzi.

Mi sembra chiaro il mefistofelico iato tra l’uomo di potere Franchini e lo scrittore. Franchini direttore editoriale segue una piattaforma ben consolidata che qualcuno chiama “l’asse editoriale Franchini-Rollo” in cui le opere pubblicate devono seguire determinati criteri di stile e contenuto: opere dal vago sentore postmoderno, scrittura docile, addomesticata, autori dediti al buonsenso editoriale con un occhio al commerciale, più che alla letteratura e alla sua storia. Poi c’è il Franchini autore che si può permettere libri ardui, con personaggi complessi, una scrittura raffinata, oserei dire quasi classica, ma nell’accezione contemporanea.

Così pian piano si fa strada l’idea che tra tutti gli autori pubblicati e immessi sulle bancarelle, ne rimarranno pochi, pochissimi. Senza malizia, vien quasi da pensare che tra questi autori ne rimarrà solo uno: lo stesso Antonio Franchini. Gli altri li ha demoliti tutti scegliendoli con accurata perfidia o facendogli cambiare idea, stile, scrittura, contenuti. Tutto apprezzabile, per carità. Ma potrei scommetterci: tra tutti l’unico, o uno dei pochi che entrerà nei Classici Meridiani Mondadori, sarà lui. Volete scommetterci? Mi gioco una cena “Dal pescatore” a Canneto sull’Oglio. Poi d’accordo, si vede che è una buona persona e quel che insegna è chiaro: vince sempre l’empatia. Vince l’empatia. Vince sempre il cinismo. Vince il cinismo. Vince il cinismo empatico di Antonio Franchini.


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