Governare tutto. Democrazia sistemica, pandemia e propaganda

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PRIMA PARTE

1. Jacob Talmon e la democrazia totalitaria

L’idea che la democrazia moderna contenga nei propri principi le premesse per un potenziale sviluppo totalitario, e che la forma politica da noi tradizionalmente associata al massimo di libertà minacci costantemente, per sua natura, di rovesciarsi in un massimo di costrizione, risale nella sua forma esplicita a Jacob Talmon, uno studioso ebreo-polacco che iniziò le proprie ricerche negli anni Quaranta a Londra, dove si era rifugiato per sfuggire al nazismo,e le proseguì a partire dagli anni Cinquanta all’Università di Gerusalemme. Nella sua Storia della democrazia totalitaria, pubblicata in tre volumi tra il 1952 e il 1981, Talmon esaminò – dalla Rivoluzione Francese ai totalitarismi del Novecento – premesse, sviluppi ed esiti di quanto chiamò «messianismo politico»: l’attesa fideistica di un ordine sociale non solo giusto perché razionale, ma anche inevitabile e imminente perché iscritto nelle leggi del progresso storico e nell’essenza dell’uomo. Talmon rintracciò nell’opera dei philosophes settecenteschi la formulazione e gli sviluppi della nuova, universale verità storico-antropologica, così indubitabile da legittimare, agli occhi dei suoi divulgatori, ogni azione intesa a favorirne il compimento. Con Russeau, Holbach, Morelly, Sieyès comparve l’idea che dal Terrore del 1793 ai totalitarismi storici non avrebbe smesso di accompagnare come un’ombra il percorso delle democrazie moderne: se l’Uomo è uno, la volontà politica e le esigenze di vita saranno le stesse in tutti; basterà dunque che le avanguardie del mutamento individuino tale volontà generale e se ne facciano portatrici. Se l’Uomo è razionale, non potrà – a meno di essere umanamente perverso – opporsi a un progetto razionale di ottimizzazione sociale, sebbene potrà rendersi necessaria una fase dittatoriale affinché coloro che non hanno ancora liberato il proprio potenziale umano vengano educati a diventare ciò che davvero sono. La costrizione, la violenza, l’invadenza di un governo che in vista della polis perfetta prende in carico la totalità dei rapporti sociali senza trascurare nessun aspetto dell’esistenza non contraddiranno comunque l’ideale democratico teso al bene comune; programmaticamente inteso ad avverare diritti politici universali, il sistema potrà continuare a difendere la libertà mentre di fatto la opprime, e priverà i governati dello stesso diritto alla protesta. Per questo, secondo Talmon, postulare l’unanimità sulla base di un modello umano universale implica la dittatura: dopo essere stata postulata l’unanimità andrà inevitabilmente costruita con un gesto di ingegneria sociale. Dal momento che la volontà generale tende al benessere di tutti, e poiché del resto la ragione politica è una, razionale e universale, chi dissente andrà rieducato, emarginato o eliminato perché perverso.

Sarebbe troppo lungo seguire qui nei dettagli l’analisi di Talmon; è invece utile, nella prospettiva che ci interessa, sottolineare che per Talmon il messianismo politico – da Rousseau a Lenin a Hitler – è una vera e propria fede in forma di filosofia della storia: nella Russia zarista «solo animate da una genuina fede nella possibilità e anzi nell’inevitabilità e imminenza del grande adempimento le avanguardie della rivoluzione messianica poterono sentirsi in diritto di dichiarare che esprimevano la vera volontà del popolo»; in Germania il nazionalsocialismo, sbarazzatosi della tradizione cristiana e illuminista (l’unità del genere umano e l’appello alla responsabilità individuale), credette al dettato del sangue – avallato scientificamente – e al destino della razza. Questa fede intransigente nella giustizia, razionalità e universalità dello sviluppo storico, e la conseguente necessità di trasformare la società in accordo con tale sviluppo, minacciano secondo Talmon di affiorare in ogni democrazia perché sono parte dei suoi fondamenti metafisici: cosa significa la storia, cos’è l’uomo, quali sono le verità di portata universale.

L’opera di Talmon, pur collocandosi nella tradizione che va da Benjamin Constant adAlexis de Tocqueville, è andata soggetta a mezzo secolo di oblio. Nell’ottimismo democratico del dopoguerra le sue tesi non potevano che risultare sgradite a tutti: non piaceva ai liberali che vedevano la democrazia inquietantemente apparentata al fascismo appena sconfitto, non piaceva alla sinistra che sbrigativamente classificò Talmon come un autore da Guerra Fredda, schierato con gli Stati Uniti e intento (come di fatto fu) a dimostrare che la democrazia può salvarsi dalle proprie innate tendenze totalitarie solo astenendosi dalla pianificazione economica di Stato. Da qualche tempo è iniziato un ritorno di interesse a Talmon e al lavoro trentennale con cui portò a termine la sua Storia della democrazia totalitaria, ci sono state pubblicazioni e convegni; in Italia la casa editrice Il Mulino ha tradotto nel 2000 il primo volume della trilogia, in Germania è apparsa nel 2013 la trilogia completa in traduzione tedesca. Di tale ritorno di interesse beneficeranno certo anche gli studi sui totalitarismi novecenteschi: l’opera di Talmon è però tanto più preziosa perché – a leggerla in modo non pregiudicato dalla griglia interpretativa della Guerra Fredda – racconta una storia che non ha smesso di riguardarci.

2. L’idea classica di totalitarismo

La tradizione degli studi sul totalitarismo è stata a lungo debitrice di un libro apparso poco dopo la seconda guerra mondiale, Dittatura totalitaria e autocrazia di Carl Friedrich e Zbigniew Brzezinsky (1956). In questo libro, che a buon diritto può essere considerato un prodotto della Guerra Fredda – Brzezinsky fu un diplomatico statunitense, consigliere per la sicurezza nazionale nell’amministrazione Carter e presidente della Commissione Trilaterale – gli autori individuano i sei tratti a loro dire caratteristici di una dittatura totalitaria: l’ideologia, il partito unico guidato da un leader carismatico, il terrorismo poliziesco di Stato, il monopolio delle comunicazioni, quello delle armi e la direzione statale dell’economia. Comune ai totalitarismi storici, per Friedrich e Brzezinsky, è una spiegazione pseudoreligiosa del mondo (ciò che pochi anni prima, nel suo The origins of totalitarianism, Hannah Arendt aveva definito come una fuga «from reality into fiction»); sono comuni l’infiltrazione del Partito nello Stato e la funzione meramente propagandistica di una Costituzione non abolita e al tempo stesso non vigente (ridotta a travestimento democratico). Nello Stato totalitario la propaganda plasma pensiero e orientamenti dell’intera società, lo spionaggio – cui la tecnologia fornisce illimitate possibilità di sorveglianza e controllo – suscita una paura generalizzata: ne nascono apatia, isolamento e ansietà, la popolazione «tende a distaccarsi da ogni questione generale». Se all’interno il sistema perviene a uno stato di unanimità forzata a opera del terrorismo di Stato, all’estero persegue la conquista mondiale come propria «inclinazione naturale»; in uno stato di emergenza permanente la dittatura totalitaria «proclama la propria totale libertà d’azione per il conseguimento dei propri obiettivi totali».

Rispetto alla pianificazione economica – che Friedrich Hayek, assai apprezzato negli Stati Uniti, indicava in quegli stessi anni come «la strada verso la servitù» – i due autori, dopo aver esaminato il Piano Quadriennale di Hitler e i Piani Quinquennali sovietici, concludevano che «la pianificazione totalitaria è formulata sulla base di obiettivi stabiliti ideologicamente; che la portata di tali obiettivi, in ultima analisi, è totale; e che non ci sono effettivi limiti temporali dal momento che l’abituale scansione in quattro o cinque anni è un puro strumento di contabilità. La pianificazione totalitaria accompagna necessariamente la rivoluzione totale messa in moto da questi regimi […] ed è tale qualità politica che la distingue dalla pianificazione economica democratica». Si potrebbe osservare che se la preparazione della guerra imperialista e l’industrializzazione del paese furono in Germania e in Russia, come indicano gli autori, gli obiettivi politici e ideologici della pianificazione economica, anche nell’odierna democrazia neoliberale la crescita e il benessere sono obiettivi pienamente politici e ideologici; che le riforme economiche introdotte per via diplomatica o militare nel Sud e nell’Est del mondo sono strumento privilegiato dell’espansione e dell’egemonia; e che in una tale situazione – facendosi incerti i confini tra il politico e l’economico – la linea di demarcazione proposta dagli autori appare quanto meno insufficiente. In questo senso il libro di Friedrich e Brzezinsky è non solo datato, ma anche troppo schierato per consentire un esame efficace del fenomeno totalitario; il suo valore (negativo ma non per questo trascurabile) consiste piuttosto nella stessa debolezza dell’argomentazione che si fa sintomo di una difficoltà: quella di isolare e descrivere compiutamente il totalitarismo dal punto di vista della democrazia liberale.

3. La «governamentalità» di Michel Foucault

L’idea che il potere – e non lo Stato – possa aspirare a governare la totalità, e che dunque lo Stato sia una configurazione storica del governo totale (e non viceversa), venne formulata da Michel Foucault alla fine degli anni Settanta. Durante il corso del ’78-’79 al Collège de France (Nascita della biopolitica), indagando l’evoluzione storica della «società disciplinare» nell’era della democrazia liberale e poi neoliberale, Foucault considerò politica e diritto, economia e statistica nel più vasto contesto di un cambio di paradigma che – compiutosi in Europa nel XVIII secolo – continua oggi a determinare l’esercizio del potere nell’Occidente contemporaneo. Foucault vide essenzialmente tre cose: che rispetto al potere monarchico-feudale (basato sul binomio proibizione/punizione, crudele con i corpi ma indifferente alle intime convinzioni dei sudditi) il potere della modernità è caratterizzato da pene meno severe ma mira a guidare e manipolare le coscienze, intervenendo in profondità sul modo di vivere e di pensare (è la nascita di «una politica considerata un affare da ovile»). In secondo luogo Foucault vide che la nascita di questo nuovo potere «governamentale» e sistemico, articolato come gestione razionale della totalità degli eventi in un gioco di strategie e calcolo delle ripercussioni, accompagnato da nuove figure e teorie (lo scienziato, l’economista, il liberismo del laissez-faire, l’homo oeconomicus come agente razionale volto alla massimizzazione del proprio utile) garantiva nuovi diritti e libertà nella misura in cui introduceva nuovi ambiti di soggezione: da un lato la Vitalpolitik individuata nel secondo dopoguerra dal neoliberismo tedesco (la gestione governativa dei rapporti sociali e dell’esistenza stessa: il rapporto dell’individuo con se stesso, con il tempo, con il suo ambiente, con il futuro, con il gruppo e con la famiglia, una politica che – nelle parole di Alexander Rüstow – assume la vita dell’individuo «dal mattino alla sera e dalla sera al mattino»); dall’altro la vita biologica intesa come specifico ambito di intervento da parte del potere (politica demografica e protezione della vita che nella Germania degli anni Trenta e Quaranta si rovesciò in sterminio della vita biologicamente indesiderata). Foucault vide infine che la democrazia neoliberale, nello stesso sforzo di scongiurare il totalitarismo inteso come pianificazione economica di uno Stato che accresce inevitabilmente il proprio potere fino a ingoiare la società (da Erhard a Eucken a Hayek i principali teorici del neoliberismo, nato in Austria e Germania, avevano tutti fatto esperienza della dittatura nazista), tendeva a una nuova e insidiosa forma di governo totale nella misura in cui, rifondando il capitalismo e la società stessa alla luce economica dell’impresa (il lavoratore come investitore del proprio “capitale umano”, la famiglia come piccola azienda, oggi lo stesso profugo come “migrante economico” e piccolo imprenditore di se stesso) costruiva con l’homo oeconomicus – l’agente in cui tutto è interesse personale – una nuova antropologia universale, e con questo estendeva oggetto e applicazioni dell’analisi economica a ogni condotta umana. Homo oeconomicus fa la sua comparsa in Europa «come colui che è possibile maneggiare e che risponderà sistematicamente alle modificazioni sistematiche che verranno introdotte artificialmente nell’ambiente […], colui che risulta eminentemente governabile». (Per misurare concretamente la perspicuità del discorso di Foucault, basti pensare agli sviluppi odierni come il boom delle «start-up» o il successo di Air Bed&Breakfast e Uber, che trasformano in hotel le abitazioni e in taxi le automobili private). Se come capitale umano ciascuno diventa manipolabile grazie ad adeguati interventi di persuasione esplicita oppure occulta, «popolazione» è il concetto operativo che appare insieme alla nuova pratica del potere sistemico-biologico e come oggetto del suo intervento «di quadro». Per tutti questi motivi, anziché far discendere il governo sistemico dallo Stato, Foucault descrisse viceversa lo Stato come una «vicissitudine della governamentalità», e la governamentalità stessa come esercizio sistemico di un potere che nasce in età moderna insieme a un nuovo interesse per l’uomo (scienze umane, psicologia, antropologia, demografia, genetica) inteso come soggetto dei diritti e soggetto alla programmazione governativa.

4. Il potere è

È necessario chiarire due possibili equivoci relativi a Foucault. Il primo riguarda la natura del potere: uno grandi insegnamenti di Foucault è che il potere non è in primo luogo una strategia dei governanti. Le strategie – che pure ovviamente esistono – sono secondarie, sono intenzionali e si danno all’interno della modalità in cui il potere, in ciascuna epoca, si irradia ugualmente su governanti e governati. L’ape regina non è responsabile dell’organizzazione dell’alveare. La nascita del biopotere e della biopolitica (il fatto che dalla fine del XVIII secolo la vita biologica della popolazione sia diventata per il potere un ambito di intervento come lo è per il ricercatore la coltura di batteri) è un avvenimento che – contemporaneo alla rivoluzione scientifico-illuminista, alla nascita del capitalismo e della democrazia – ha avuto un valore decisivo nella storia occidentale senza essere stato pianificato da nessuno. È questo che intendeva Foucault quando nella Volontà di sapere scrisse che bisogna imparare a fare la storia senza il re, che il potere è ovunque, che il potere non si possiede ma si esercita. Foucault indagò il “potere del tempo” nello stesso senso in cui si potrebbe parlare dello “spirito del tempo” (scrivendo Guerra e pace Tolstoj ebbe una visione simile, e nei capitoli di filosofia della storia in fondo al libro fece l’esempio della figura intagliata sulla prora che «appariva ai selvaggi la forza che dirige la nave»). Questa diversa prospettiva sul potere, che potremmo chiamare ontologica – il potere è, si irradia anche se non si vede e apre lo spazio delle possibili scelte governative – ha il doppio vantaggio di non limitarne l’analisi alle intenzioni strategiche di chi lo esercita (vere o presunte) e di negare ogni preminenza teorica data alle dichiarazioni dei governanti (per avvalorarle o metterle in dubbio). Nel pensiero di Foucault il soggetto non è sovrano, la ragione non è sovrana: né lo sono il sapere e lo Stato.

Tutto ciò non ha smesso di insospettire, nel corso dei decenni, la sinistra illuminista e il pensiero democratico-liberale: da un lato perché Foucault rinuncia al materialismo storico marxista, secondo cui i cambiamenti sociali sono dovuti esclusivamente agli interessi economici che ispirano in modo diretto le azioni dei governi nel quadro della lotta tra sfruttatori e sfruttati (in epoca biopolitica la lotta di classe ha luogo – se ha luogo – nell’ambito di un comune quadro di riferimento biologico prima che economico). Dall’altro perché rifiuta risolutamente la centralità del soggetto, così importante per le due tradizioni – parzialmente antagoniste – del liberalismo democratico e del socialismo. La sinistra illuminista trova inoltre inaccettabile l’idea che la società capitalista sia nata insieme alla democrazia e resti ad essa legata da una profonda inerenza reciproca: nella prospettiva di Foucault – che come Aristotele non aveva la fede politico-messianica dell’età moderna – la democrazia è una possibile configurazione del potere e in quanto tale non è né buona né cattiva; a periodi di ossequio dei diritti civili ne possono seguire altri apertamente liberticidi (i fascismi storici vennero sostenuti da un consenso plebiscitario).

Il secondo possibile equivoco è quello di chi, a partire dalla fede illuminista e aprioristica nella democrazia come strumento dell’emancipazione, relega l’esperienza del totalitarismo nei libri di storia del Novecento e rifiuta ogni accenno a un odierno sistema di governo integrale della società (quanto Foucault indagò sotto il nome di «governamentalità»). È un malinteso che deriva dall’incapacità di vedere il simile in ciò che è apparentemente dissimile, oltre che dalla convinzione – peraltro corretta – che la storia non si ripeta. In verità, se si trattasse di stabilire che il tempo dei totalitarismi storici è passato e non tornerà più, basterebbe leggere L’operaio di Ernst Jünger: un libro che nel 1932, esaltando onore militare e disciplina, usando un lessico già compiutamente nazionalsocialista (popolo, destino, sacrificio, sangue) celebrava la figura dell’operaio-guerriero e annunciava l’imminenza di un futuro diventato inattuale, in questo senso, nel giro di pochi decenni. Non ci sono oggi in giro uniformi nere, né saluto romano, né legioni a passo cadenzato; i governi della Weltdemokratie non imprigionano né torturano le opposizioni (per quanto la repressione violenta venne praticata da tutte le dittature del passato e non è una caratteristica specifica del totalitarismo). Parlare di un «governo totale» odierno non significa ignorare le differenze tra le dittature totalitarie novecentesche e la Weltdemokratie, ma individuare il paradigma comune a configurazioni diverse, ciò che le rende – nelle loro differenze – parte di una stessa storia. È a partire da tale paradigma che nella nostra contemporaneità diviene visibile una convergenza di strutture democratiche e totalitarie.

5. Sheldon Wolin e il totalitarismo rovesciato

Due studiosi assai distanti per metodo e formazione hanno messo in luce nei loro scritti tale convergenza. Uno è Sheldon Wolin, il politologo statunitense che già nel 2001, in margine a una ricerca su Tocqueville, usò il termine «postdemocrazia» diffusosi in seguito grazie all’omonimo libro di Colin Crouch. Nel suo Democracy Incorporated. Managed democracy and the specter of inverted totalitarianism (2008), Wolin descrive la postdemocrazia statunitense negli anni della «guerra al terrore» come un sistema politico nuovo, dalle tendenze totalitarie. Non è lo Stato a essere totalitario, ma un conglomerato di potere statale, potere aziendale, scienza, tecnologia, comunicazione di massa ed esercito. Al proprio interno il sistema incoraggia il disimpegno politico, spia i cittadini ai fini della sicurezza, fa propaganda attraverso la comunicazione di massa aziendale; è una «democrazia amministrata» in cui le elezioni sono condotte con strategie di marketing e finanziate con denaro privato, i sondaggi orientano l’opinione pubblica e i due partiti che si contendono Congresso e Presidenza esprimono una stessa agenda politica (sono di fatto fazioni interne di un partico unico). L’obiettivo dichiarato di «proteggere la vita» giustifica un uso senza precedenti delle tecnologie di controllo e manipolazione di massa, gli intellettuali vengono integrati grazie a ingenti spese di public relations (come i corsi di giurisprudenza sponsorizzati dalle aziende). All’estero il sistema – orientato all’espansione globale e alla supremazia – pratica una politica di aggressione finanziata con immense spese militari e propagandata suscitando nella massa paura e nazionalismo; gestisce campi di concentramento e pratica una guerra senza confini in uno stato di crisi permanente che giustifica la sospensione delle garanzie costituzionali. Narcotizzata dai sogni iperreali del marketing e dell’industria dell’intrattenimento (il benessere, la merce, la vita/pace/libertà, la guerra contro il Male), la popolazione accetta di buon grado la sospensione dei diritti. Il parlamento è succube dell’esecutivo, l’astensionismo elettorale arriva al 50%; il dissenso è sottoposto al controllo della polizia e la protesta viene censurata dai mass media. Per tutte queste ragioni il nuovo sistema postdemocratico è più potente, più estensivo e invasivo dei totalitarismi storici; se ne differenzia perché è indipendente dalla personalità di un leader specifico e non è nato da una rivoluzione, non mobilita la massa ma la invita al disimpegno.

Un primo limite della prospettiva di Wolin (limite comune ai diversi teorici, tutti di formazione marxista, della postdemocrazia, del tramonto della democrazia, della democrazia postparlamentare o postelettorale o «senza demos») è l’incertezza sul valore politico da assegnare alla massa: a volte appare interessata e consenziente, a volte strumentalizzata dalle strategie del potere pur desiderando – illuministicamente e marxisticamente – una società più equa. Questa incertezza porta Wolin a proporre «misure ovvie» che così ovvie non sono e che ricordano le proposte utopistiche formulate da Crouch nel suo Postdemocrazia: resuscitare la lotta di classe, tornare alle piccole comunità locali, educare una nuova generazione di public servants pervasi di onesto spirito civico; misure a tal punto lontane dalla realtà che, se Wolin nel frattempo non fosse morto, avrebbe visto nell’autunno del 2020 gli USA di Donald Trump sull’orlo del fascismo. Il secondo limite è l’incertezza teorica sulla natura del potere: il «totalitarismo invertito» è una strategia della classe dirigente oppure no? «Non è il risultato di un disegno premeditato», «non è stato suggerito da alcun direttorato centrale»: più volte però indica in seno all’élite neoliberale i responsabili e le loro strategie. Non è difficile indovinare le ragioni di questa seconda incertezza teorica: in essa vengono a confliggere da un lato la concezione marxista della storia come trasformazione economica, condotta da agenti strategici (homines oeconomici ante litteram) nel quadro della lotta di classe; dall’altro la prospettiva di Alexis de Tocqueville al quale Wolin dedicò nel 2001 una voluminosa e attenta monografia. Nel 1835 Tocqueville annunciò – in questo anticipatore di Talmon – che la democrazia si sarebbe evoluta pacificamente e naturalmente, non da una rivoluzione, in un governo totale e pastorale degli uomini e delle cose:

«Vedo una folla innumerevole di uomini, simili e pari, che girano senza posa su se stessi procacciando i piccoli e volgari piaceri dei quali nutrono le loro anime. A ciascuno di loro, ritirato, separato, resta estraneo il destino degli altri: amici e figli costituiscono per lui l’intera specie umana; quanto ai concittadini, se li trova accanto ma non li vede […] Al di sopra di tutto questo si eleva un immenso potere tutelare, che si incarica di garantire i loro divertimenti e di custodire il loro fato. È assoluto, dettagliato, regolare, lungimirante e dolce […] cerca di tenere gli uomini irrevocabilmente fermi all’infanzia […] procura sicurezza, prevede e soddisfa i loro bisogni, facilita i loro piaceri, conduce i loro affari più importanti, dirige la loro laboriosità, regola i loro possedimenti, divide le loro eredità […] non spezza le volontà ma le ammorbidisce, le piega e le dirige […] non distrugge le cose ma fa in modo che non nascano, non tiranneggia ma impedisce; compromette, snerva, spegne, stordisce e riduce infine ogni nazione a un gregge di timidi e industriosi animali dei quali il governo è il pastore.»

(Democracy in America)

6. Democrazia gloriosa

Con altri interlocutori, altro metodo e altra prospettiva, l’idea di una democrazia totalitaria è stata elaborata per anni da Giorgio Agamben all’interno della sua vasta opera Homo Sacer (1995-2014). Nella ricerca archeologica e metafisica esposta nel libro Il Regno e la Gloria, in particolare, Agamben accoglie l’ipotesi foucaultiana del potere governamentale: mentre però quest’ultimo si limitò a indicare genericamente nella pastorale cristiana medioevale l’origine storica del governo sistemico di uomini e cose, Agamben la fa recedere al grande dibattito sull’oeconomia divina che a partire dal terzo secolo cercò di rendere compatibile la trascendenza di Dio – infinito e separato – con il suo governo del mondo. Da allora, e per diciassette secoli, «economia» (la prassi di Dio) fu in Occidente un concetto esclusivamente teologico; il compiersi della storia fu inteso come il compiersi dell’economia, ed entrambi – in quanto misteri divini – furono sottoposti ad attenta esegesi (in età moderna Marx sostituirà all’economia divina quella umana e alla prassi creatrice di Dio quella dell’uomo: il compiersi dell’economia sarà allora la necessaria fine del capitalismo). L’articolazione del concetto teologico di economia nelle teorie della Provvidenza tra il terzo e il tredicesimo secolo portò inoltre alla prima formulazione di paradigmi tuttora vigenti: quello del liberismo/neoliberismo (provvedendo al benessere della casa il padrone provvede accidentalmente al benessere dei topi), quello della scienza che alla causa finale aristotelica sostituisce cause ed effetti solo immanenti; quello dell’attività di governo (divino ieri, umano oggi) come impostazione economica generale che persegue i propri obiettivi in un complesso sistema di effetti collaterali.

Ripercorrendo l’ontologia occidentale e le sue svolte epocali, Agamben ricostruisce infine le origini della nostra idea trascendente della democrazia. Nella misura in cui risolsero l’economia divina in macchina di governo che – dotata di sovrano e ministri – resta “democratica” perché il progetto di Dio lascia alle creature la loro libertà, le teorie del governo divino del mondo approntarono un modello che sarebbe stato accolto ed elaborato dalla riflessione giuridico-politica dei moderni. «La vocazione economico-governamentale delle democrazie contemporanee non è un incidente di percorso, ma è parte integrante dell’eredità teologica di cui sono depositarie». Secolarizzazione – notò per primo Carl Schmitt nella sua Teologia politica – non significa la fine della fede nel soprannaturale a vantaggio di un sapere laico e razionale, ma la permanenza di elementi fideistici in un contesto che ne è apparentemente privo. Nell’epoca della compiuta matematizzazione del sapere, il divino circola in incognito: in passato la filosofia marxista della storia con la promessa del Regno, oggi la trascendenza del Mercato e del suo potere autoregolatore (alla domanda «che cosa governa il mondo?» i più rispondono – oggi come nel terzo secolo – «l’economia»).

È però la prospettiva tecnologica, più che quella archeologica, a far apparire in modo più decisivo nella nostra contemporaneità una democrazia dai tratti totalitari. Agamben mostra da un lato come nella tradizione teologica occidentale il potere – sia divino che umano – si trovi da sempre in una connessione essenziale con la gloria: nella teologia antica e moderna, da Tertulliano a Tommaso a Peterson, tanto la gerarchiazzazione del potere celeste che la sacralizzazione di quello terreno (ecclesiastico e in seguito profano) giungono a compimento come gloria. Al termine dell’economia della salvezza, Dio è soltanto Gloria; dopo il Giorno del Giudizio l’amministrazione angelica del mondo verrà meno e la sola attività degli angeli sarà la glorificazione di Dio. Un’indagine delle insegne e delle cerimonie del potere occidentale, dall’impero romano al XX secolo, mostra d’altro lato che magia, religione e diritto diventano indistinguibili nell’ambito dei fenomeni riconducibili alla Gloria. In età imperiale il popolo acclama a Roma il trionfo dell’imperatore divinizzato, in età cristiana Dio e l’imperatore; tornerà ad acclamare durante il fascismo, in un’epoca che presumeva di avere distinto da tempo il potere politico da quello religioso. Oggi come ieri, il potere intrattiene una relazione essenziale con la gloria. «Più decisiva della contrapposizione tra teologia e politica, potere spirituale e potere profano, è la gloria in cui essi coincidono».

Nell’amen e nell’Heil Hitler (nel Forza Italia e nello Yes, we can, nel Just do it e negli altri slogan di massa della nostra epoca)teologia e politica si confondono in una pratica acclamatoria che desemantizza il linguaggio affinché diventi pura glorificazione e vibri in una sfera più prossima alla magia che alla razionalità. Facendo convergere la tesi di Schmitt sull’acclamazione come specifica prestazione giuridica del popolo con quella di Guy Debord (l’economia capitalista come immensa accumulazione di spettacoli a livello planetario), Agamben individua un organismo politico in cui la glorificazione plebiscitaria dello spettacolo mediatico e trionfale delle merci fa sfumare ogni netta opposizione tra stato totalitario e democrazia consensuale: «la democrazia contemporanea è una democrazia integralmente fondata sulla gloria, cioè sull’efficacia dell’acclamazione, moltiplicata e disseminata dai media al di là di ogni immaginazione […] una democrazia gloriosa, in cui l’oikonomia si è integralmente risolta nella gloria e la funzione dossologica, emancipandosi dalla liturgia e dai cerimoniali, si assolutizza in misura inaudita e penetra in ogni ambito della vita sociale.» Al compiersi della storia – al termine dell’economia della salvezza, al termine del percorso politico della democrazia – il potere si risolve in Gloria e in glorificazione; se nella prospettiva di Tommaso d’Aquino l’inferno, come eterna amministrazione di un supplizio che diventa spettacolo per i beati del paradiso, era la sola eccezione alla fine gloriosa del tempo e del governo del mondo, nel governo postpolitico della Weltdemokratie – guidata da una filosofia della storia che intende libertà, sicurezza e benessere come destino dell’Occidente – i salvati dell’ordine mondiale assistono mediaticamente al dolore e all’iniquità nella parte di mondo non ancora redenta, e si compiacciono di appartenere alla schiera dei beati.

7. Soggetto economico, soggezione della psiche

Foucault non credette mai che la fisica e le scienze naturali, come le conosciamo nel loro sviluppo a partire dal XVII secolo, dicessero il vero. Non credette nemmeno che dicessero il falso: vide piuttosto le regole che di epoca in epoca indicano al sapere, prima ancora che il vero e il falso, cosa può essere vero o falso. I Greci per esempio non pensavano, come facciamo noi, che i desideri sessuali possano rivelare l’intima verità del soggetto. Nei suoi ultimi anni, indagando la nascita e lo sviluppo del governo sistemico, Foucault coniò il binomio «governo-verità» per indicare che, se il potere si è sempre appellato alla verità e se ne è ammantato (nelle basi giuridiche, nella riflessione filosofica, nella pompa del cerimoniale) le modalità di produzione di questa verità sono storiche e cambiano. Nell’epoca della governamentalità – che eredita dalla cristianità il confronto secolare con la nascosta verità del sé – è soprattutto l’individuo che il potere offre alle coeve discipline del sapere come suscettibile di essere vero o falso. Se il potere pastorale cristiano indusse per primo ogni individuo a raccontare tutto di sé (la confessione fu resa obbligatoria nel 1215 dal quarto Concilio Laterano), in età moderna – grosso modo a partire dal XIX secolo – il potere governamentale-scientifico sollecita ognuno a produrre la propria verità (per esempio nella pratica psicoterapeutica, che secondo Foucault è l’erede di quella confessionale). In questa prospettiva la pratica della schedatura e la tecnica archivistica, che dall’ospedale e dal commissariato ottocentesco si sono ampliate irresistibilmente fino all’odierna «profilazione» di massa realizzata tramite lo scrutinio e l’elaborazione algoritmica delle attività online, non rappresentano tanto un’innovazione tecnica del XVIII secolo quanto un’esigenza di appropriazione e controllo sconosciuta alle epoche passate perché interessata più alla psiche che al corpo.

Per questo motivo Foucault prese sempre le distanze dalle due ideologie principali del dopoguerra europeo: quella liberale e quella marxista, che condividevano da un lato una fede cristiana (secolarizzata) nella storia come progresso, dall’altro la fede nella scienza e nella ragione illuminista come strumenti di questo stesso progresso storico, inteso come liberazione dal precedente stato di servitù e avvento di una società giusta perché libera. Se il potere assume l’educazione, la guida e la direzione sistemica di un suddito ontologicamente pensato e socialmente plasmato come homo oeconomicus, una nuova forma di sottomissione ha sostituito la vecchia, e un certo esercizio della libertà diventa – oltre che diritto individuale legittimamente opposto al potere – elemento necessario al governo sistemico della popolazione di homini oeconomici (come accade nelle dottrine del laissez-faire). Nel regime di gestione integrale che ci è contemporaneo – amministrazione biologica della popolazione come coltura di viventi, estensione capillare delle procedure di raccolta e archiviazione del sapere sugli individui, confessione consenziente della propria verità intima tramite le attività online – la libertà di associazione e di impresa, di spesa e di opinione, è una libertà di individui costantemente accompagnati, sollecitati, manipolati, sedotti, esortati. Il problema della «privacy» è potuto nascere – ed è al tempo stesso insolubile – perché ciò che interessa il potere dell’epoca governamentale è proprio la privatezza, il segreto dell’individuo; è l’uso delle neuroscienze come strumento di marketing, l’amministrazione oggettiva del soggetto della democrazia. Nella prospettiva di Foucault il massimo di libertà abitualmente ascritto alla democrazia moderna (peraltro trasformatasi nei decenni dopo la sua morte in ciò che alcuni studiosi chiamano «democrazia simulativa») è accompagnato da una soggezione intima, una soggezione della psiche.

8. La manipolazione occulta di Richard Thaler

Esempio di tale soggezione come modello egemone di potere nella Weltdemokratie, e sintomo al tempo stesso di una mutazione in atto nella pratica del governo sistemico, è stato il conferimento del premio Nobel per l’economia a Richard Thaler nell’ottobre 2017. La stampa commentò allora l’evento con ingenui e trionfali entusiasmi che si possono riassumere in tre punti: 1) Thaler ha ridimensionato l’homo oeconomicus della teoria classica (l’agente che massimizza il proprio utile grazie a previsioni esatte) sostituendolo con un agente meno infallibile, più incerto e per questo più realistico; 2) le teorie di Thaler hanno arricchito la comprensione dei mercati introducendo i fattori psicologico-comportamentali; 3) Thaler ha dato – come dichiarò la stessa giuria di Stoccolma motivando l’assegnazione del premio – «un volto umano all’economia». Nel libro Nudge, espressamente e ampiamente menzionato dalla giuria, Thaler e il suo co-autore Sunstein spiegano diffusamente che le persone fanno scelte spesso irrazionali, dannose per se stesse e per la collettività; per questo motivo auspicano che governi e aziende impieghino politiche di manipolazione subliminale – in via di sperimentazione da decenni – per indurle a scegliere quanto per loro è meglio (un nudge è propriamente un colpetto dato con il gomito a qualcuno per indurlo a fare qualcosa: una sollecitazione).

La gente spesso fa scelte ben povere – e poi resta sconcertata! Facciamo così perché siamo esseri umani, siamo tutti soggetti a una vasta gamma di tendenze, imposte dalla routine, che possono portarci a una gamma parimenti vasta di gaffe imbarazzanti riguardo all’educazione, alle finanze, alla cura della salute, ai mutui bancari e alle carte di credito, alla felicità e addirittura riguardo allo stesso pianeta.

L’esclusiva responsabilità dell’individuo rispetto alle proprie fortune è uno dei grandi temi dell’élite liberale inglese e statunitense, l’università di Chicago presso la quale insegna Thaler è dai tempi di Milton Friedman una roccaforte del pensiero neoliberale; lo stesso premio Nobel per l’economia – il cui vero nome è «Premio della Banca di Svezia in onore di Alfred Nobel» – è notoriamente un feudo dell’élite finanziaria svedese. Non sorprende dunque che Thaler e Sunstein riprendano e approfondiscano nel libro un tema dalla forte connotazione politica. Meno ovvio è che attraverso il prestigio apparentemente super-partes del premio – suggerito dal volto “umanitario” del Premio Nobel per la Pace – un’istituzione europea abbia avvalorato il «paternalismo libertario» di Thaler come importante progresso della teoria economica e adeguato rimedio alla congenita fallibilità degli individui (che nel libro non vengono mai chiamati «cittadini» e – come in una nuova antropologia universale – non vengono mai distinti in base all’appartenenza sociale, alla cultura di provenienza e al livello di istruzione).

l’aspetto paternalista consiste nel rivendicare come legittimo che chi ha il potere di indirizzare le scelte cerchi di influenzare il comportamento delle persone per rendere le loro vite più lunghe, più sane e migliori. In altre parole sosteniamo lo sforzo consapevole, da parte del settore privato e da parte dei governi, di dirigere le scelte delle persone in direzioni che miglioreranno le loro vite.

Nudge è scritto in uno stile arguto, accattivante, che ricorda quello dei self-help books (come avere successo, l’arte di vivere bene). I suoi numerosi esempi dell’inettitudine umana – esperimenti di laboratorio, aneddoti tratti dalla vita quotidiana degli autori, divertiti rimandi alla figura televisiva di Homer Simpson – contengono dichiarazioni ideologiche nascoste e operano una triviale semplificazione di ciò che è complesso, facendo passare per ovvio ciò che non lo è; elogiano l’importanza della salute, della scelta del giusto college universitario e del denaro senza mai chiamare in causa i divari economici e la distribuzione della ricchezza. In questo senso il libro è un prodotto di propaganda; nel conferimento del Nobel a Thaler c’è però una seconda e più importante implicazione politica. Nuova, infatti, non è la constatazione che gli individui siano fallaci, irrisolti e contraddittori: da Platone a Ignazio di Loyola a Freud, il pensiero occidentale ha declinato per millenni il tema dell’insufficienza umana, alla quale di volta in volta ha cercato di mettere riparo con la psicagogia, con la fortificazione della volontà, con l’esplorazione dell’es. Nuova è la terapia autoritaria – dolcemente autoritaria – prescritta dalla disciplina dominante della nostra epoca nel dichiarare gli individui inevitabilmente e irrimediabilmente incoscienti.

Se l’ammiccante richiamo al Grande Inetto che c’è in tutti noi (il suggerimento che essere inadeguati è tutto sommato bello in un mondo user-friendly) ripete il be yourself, la paradossale e rassicurante ingiunzione che la Weltdemokratie formula da decenni nelle istituzioni, nell’industria culturale e nel marketing, la fine dell’homo oeconomicus nelle riflessioni di un Nobel per l’economia – la fine dell’antropologia dell’agente economico razionale come soggetto della libertà e insieme punto di innesto della soggezione – ha indicato nel 2017 una trasformazione in atto. Al fondo dell’umano non c’è più quel buio inquietante da cui cercare scampo, dopo una presa di coscienza individuale, in un difficile e responsabile processo di riscatto; non c’è più nemmeno il soggetto moderno – sovrano e razionale – che persegue perspicuamente il proprio utile grazie a un corretto computo delle proprie informazioni e risorse: l’agente economico (l’uomo) è un soggetto ontologicamente non sovrano, schiavo della propria inadeguatezza e incapace di perfezionamento che il potere – prendendo atto della sua essenza – mette sotto tutela. La sincerità, il desiderio, la passione, la spontaneità come qualità essenziali del soggetto (come se un essere umano non fosse anche insincero, apatico e ipocrita) vengono a implicare, in un regime di democrazia totalitaria, un’auspicabile autoritarismo soft e una ridefinizione della libertà.

Gli esseri umani commettono errori. Un sistema ben progettato si aspetta che i suoi utenti sbaglino ed è il più indulgente possibile.

Fine prima parte


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