Joker e lo spettro della rivolta

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Più che l’avversario di Batman, questo Joker di Todd Phillips ricorda Lo straniero di Camus, l’uomo della rivolta “metafisica” contro l’assurdità dell’esistenza, che si sostituisce a Dio e finisce col motivare l’arbitrio e il crimine, propalando un contagio di feroce anarchia naturale.

Il primo omicidio di cui si macchia avviene in base a una serie di coincidenze e fatalità (la pistola gli viene donata da un collega ed è la causa del suo licenziamento, quello stesso giorno) e in difesa di una vittima – una donna sola, sul treno di notte, molestata da tre ricchi borghesi di ritorno dalle loro bravate –, nella quale il futuro Joker si identifica con piene ragioni: al contrario di un film sui supereroi e i loro avversari, qui abbiamo una pellicola sulla parabola di un emarginato, un capro espiatorio preso a calci da ogni cosa che ha attorno, dai colleghi, dal suo capo, dai passanti, dalla malattia mentale della madre, persino dai poveracci come lui. La New York nella quale si muove – chiamarla Gotham City suona riduttivo –, somiglia a quella del Cattivo tenente di Abel Ferrara, e funziona benissimo nel rappresentare un mondo di diseguaglianza che ci parla delle rivolte dei Gilet Gialli in Europa come della classe media in Cile.

L’attore, Joaquin Phoenix, dimostra di avere un magnifico physique du rôle: la performance più disturbante di tutto il film in effetti non è il marchio di fabbrica della sua risata patologica, risultato degli abusi subiti durante l’infanzia, bensì il modo in cui se ne sta sul divano a petto nudo, torcendosi, in preda alla disarticolazione, sempre più disgregato sotto i colpi del malessere intimo – e sociale –, che lo sta divorando. Phoenix trova una delle interpretazioni migliori della sua carriera, la storia ci tocca, passiamo il film a sperare in una carezza che potrebbe salvarlo, pur intuendo dall’inizio che a Gotham la violenza è l’unica lingua. E lui ci si piega sotto, sempre più ingobbito e fragile, ma in qualche modo ne viene fuori con forza, spinto da un misto di voglia (non gioia, no) di farcela e da un fiume di frustrazione e risentimento trasformati in energia nera.

Resta quindi inconcepibile che l’argomento di conversazione principale, in ogni recensione, sia il dibattito su quale Joker sia meglio tra Ledger e Phoenix. Il Joker di Ledger è un supereroe (o meglio, un supercattivo) canonico – per quanto pensato in modo furbo e ben recitato –, buono per i bambini, i fanatici DC e gli (ex?) adolescenti; quello di Phoenix non è un Joker, è uno studio di carattere che ricorda film basati sulla performance dell’attore come This Must Be the Place di Paolo Sorrentino, e insieme una favola nera che si ispira dichiaratamente a film anarco-psicologici come Fight club e V per Vendetta, più che al giustiziere di Taxi driver, oppure al Jim Carrey di Kidding.

Molto intelligente anche l’introduzione, in questa sorta di prequel di Batman, del rapporto di amore/odio, emulazione/invidia con il modello borghese e la società dello spettacolo, rappresentati dal comico televisivo di successo e dal padre del futuro supereroe buono, il candidato a sindaco di Gotham City: in questa prossimità tra «morti di fama», emerge anche la natura di doppio mostruoso di una società fondata sulle diseguaglianze e su una arbitraria gerarchia di valori, che ogni capro espiatorio incarna. Un peccato, invece, che come in Fight club la forza eversiva del doppio, il suo proliferare contagioso e la sua dannazione siano poi incanalati, nel finale, in una gestione consolatoria del genere patibolare, che rimette in ordine le cose assicurando il reietto alla giustizia (e alla spiegazione) psichiatrica invece che alla consacrazione politica, come avviene nella vita reale.

Proliferare del doppio, confusione dei ruoli vittima/carnefice, uso dell’approfondimento biografico e relazionale per superare i limiti del genere, impiego del paradosso e del parossismo: ci sono molte buone notizie, in questo film, per i selvaggi della Wildworld; in particolare, sembra che Phillips, per primo rispetto al personaggio immaginario, si sia fatto una domanda: qual è la cosa più vicina alla realtà che possa accadere a un essere umano per renderlo un giustiziere e un condottiero in potenza? E la risposta, che è quanto di più improbabile ci si aspettasse, risulta molto più illusionistica di qualunque soluzione basata sull’ideologia della verosimiglianza e dell’appropriatezza.

… … …

Fotografia a corredo di Michela Bin, per gentile concessione dell’autrice. Nata a Trieste nel 1972, Michela Bin è laureata in archeologia medievale presso l’Università di Trieste; appassionata di fotografia da sempre, ha approfondito le sue conoscenze, tra gli altri, con Graziano Perotti.


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