Lettera di una bambina mai nata

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Non ti hanno ancora detto niente quando tu, distesa sul lettino, l’inutile ecografo a portata d’orecchio, dottori e marito accanto, in un momento di silenzio capisci. Qualcosa sta per succedere: puoi alzare le mani, proteggere il viso e difendere il corpo ripiegando su te stessa, oppure fare come me e restare immobile, l’anima incredula davanti alla fine.

La dottoressa mi intima di non piangere, poi si corregge, mi invita a farlo. All’improvviso, le sembra sia il caso. Le parole suonano dure, ruvide, confuse, ma nello stesso tempo la sento vicina. Magari mi vuole aiutare a capire che non ho scelta.

Ero venuta qui per un controllo di routine, all’uscita dovevo scegliere le tutine. Invece mi ritrovo in un centro di salute mentale il pomeriggio stesso; uno psichiatra deve certificare che sono mentalmente incapace di portare a termine una gravidanza ad altissimo rischio: questo mi chiede la legge, la 194/78, all’articolo 6. Non è a rischio la mia salute fisica, anche se per la mia creatura non c’è speranza di sopravvivere, quindi bisogna dichiarare che sono io, la mamma, a essere «incapace», inabile a farvi fronte. Da quel giorno, per tutti, saremo «un articolo 6».

Nello stanzino che trasuda puzzo di sigaretta, una giovane psichiatra si vergogna di quanto deve fare, sa che non ho scelta e soffre con me; poi esegue. E cancella, con una firma, la mia dignità. Come se il dolore e il senso di colpa non fossero già, di per sé, devastanti.

Poi l’ospedale, i corridoi asettici, la stanza spoglia in cui rimango tre giorni e tre notti, isolata, in attesa che i farmaci che mi hanno somministrato facciano effetto: devo attendere che abbia inizio il travaglio e che mi conducano in sala parto. Nelle camere accanto, ci sono le donne che hanno appena dato alla luce i propri figli: sento i loro vagiti.

Ricorderò per sempre la pillola: ingombrante, mi scende in gola come se avesse gli spigoli di una pietra appuntita. Ricorderò le mani di mio marito, la delicatezza di ogni infermiera e di ogni medico in quella stanza, ma anche la maledizione dell’unica ginecologa obiettrice del reparto, che si sporge dalla porta e mi ficca gli occhi dentro: «Questo bambino tornerà a trovarla, prima o poi.»

La giovane ecografista, quella che solo due mesi prima, alla dodicesima settimana, mi aveva detto che tutto era a posto, fa il suo ingresso nella mia stanza, si scusa e mi abbraccia. Accolgo tra le mie una sconosciuta che non ha colpe e sono io che la consolo.

Quella notte, la ginecologa contraria per principio all’aborto per poco non mi farà dissanguare in attesa del turno successivo: mi aiuterà il personale nuovo, e non affogherò nel mio sangue. Poco prima dell’espulsione, in sala parto, la dottoressa mi farà una carezza sulla gamba. È l’ultima cosa che ricordo, o che riesco a ricordare, prima che mi addormentino. Se mi concentro, anche oggi, riesco ancora a sentirla.

Espellere una vita, un sogno, un’immagine di noi, della famiglia che avremmo potuto essere: questo ho dovuto fare. Aborto terapeutico, si dice. Ma cos’è che va davvero a curare? Io non lo so. Non lo so più.

Usciamo storditi dall’ospedale, ma con un senso di sollievo, l’idea di averla scampata: durerà poco. La morte di un figlio che ha vissuto, è stato conosciuto e abbracciato, è un evento infinitamente tragico; ai genitori, tuttavia, viene riconosciuto un diritto al dolore: i parenti, gli amici, rispettano la sofferenza, ne parlano. Quel bambino che hanno visto, conosciuto, fosse anche per poco, è un bambino che può essere ricordato. Di un bambino mai nato, invece, non si parla, non se ne può parlare; le persone care neppure lo nominano. Invitano i genitori ad andare avanti, a dimenticare. 

Hanno ragione loro. Anch’io non la nomino, perché ancora non le avevo dato un nome. E quando il momento arrivò, decisi di non guardarla. Non la guardai, non la strinsi tra le mie braccia, non le diedi un nome. Mi girai dall’altra parte. E così fece mio marito. Adesso c’è questa cesura, tra noi, un’idea intangibile, eterna, di cui non riusciamo a parlare. Io e lui non ne parliamo, e nel non detto ne stiamo ancora parlando. Ho partorito una figlia, ma non ho dato la vita. E adesso c’è una bambina mai nata nella mia famiglia. Quanto pesa un vuoto?

***

Mi sono messa a letto presto, ieri sera, dopo aver addormentato i bambini, quelli reali, quelli che non sono morti prima ancora di avere una spina dorsale sufficientemente sviluppata e le braccia abbastanza lunghe, intendo.

Un pugno in pieno viso mi ha svegliata di soprassalto. Ne seguono altri due, fortissimi, uno sullo sterno e l’altro sulla coscia destra, prima che riesca a riavermi, a spostarmi. Boccheggio. Federico si agita sul materasso, sferra altri cazzotti per aria, ce l’ha con qualcuno a cui grida parole di una violenza incredibile. Faccio per accendere l’interruttore della abat-jour, ma in quel momento mi sento afferrare per i capelli. Lottiamo alcuni istanti, forse un minuto o due, quando lui ha la meglio: mi sovrasta e mi riempie di ceffoni.

«Basta! Basta!» 

Ma quello non risponde e impreca: finché, di colpo, si accascia tra le coperte, immerso in un sonno profondissimo. Io resto in piedi fino all’alba, con il ghiaccio cerco di placare il gonfiore degli zigomi. Per fortuna la pelle non si è spaccata.

«Che ti è successo?» Federico, appena sveglio, inorridisce alla vista del mio volto e il mio racconto lo turba. «Ma non può essere!»

«Guardami in faccia, cazzo!»

 «Amore, non ricordo niente, io… Non volevo. O mio Dio, che mi succede?» si scusa e piange lacrime sincere . Ha paura, e se lo merita. Ai bambini racconto che sono caduta dal letto durante la notte, non è niente di grave, passerà. Ma anche io ho paura.

Mio marito pensa che l’ho uccisa io. Non è mai l’uomo, infatti, che lo fa: sì, magari ti tiene la mano, mentre espelli. Ma quella che spinge sei tu, è dalla tua vagina che passa tutto. Lui, nella notte, ricorda questo.

Il giorno dopo Mironi lo ha visitato sul nostro divano: la pressione era a posto, così come il riflesso oculare e i polmoni.

«Si tratta sicuramente di stress. Un bizzarro episodio di sonnambulismo. Ne aveva mai avuti di simili?» Federico ha negato, io sono rimasta zitta. Il dottore ha prescritto un blando ansiolitico per entrambi e un antidolorifico soltanto a me; poi si è raccomandato di effettuare gli esami del sangue il prima possibile.

«Nel frattempo potreste dormire divisi, fino al nostro prossimo incontro.»

Federico gli ha sbattuto la porta dietro le spalle. «Che vada affanculo! Io quelle schifezze non le prendo!» Non esiste, per lui, dormire separati. «Neanche per idea! Se lo rifaccio, mi devi svegliare e prendermi a calci, punto e basta!» Non ho ribattuto.

Ho appuntamento col ginecologo due giorni più tardi. Sirelli, l’unico che lavora in privato, in paese, ha uno studio abbagliante di vetro resina e luci al neon, che odora di amuchina e spray al mughetto. Oggi mi visita spedito, ha poco tempo, e io ho lasciato i bambini con la segretaria nella piccola sala d’attesa. «Non ci sono aderenze. Potete riprovarci, quando volete.»

Riprovarci: non sa di cosa parla. Mi esce una risatina breve, uno scatto, e in quel momento sento la sua mano contrarsi dentro di me e spingere lo speculum più su, più forte.

Allora aggiungo subito che io e mio marito siamo ancora costernati per la scelta che siamo stati costretti a fare, purtroppo senza alternative.

«Capisco…»

Mi sono svegliata perché l’ho sentito già dentro di me. La vagina che bruciava ancora per la visita e per l’assenza di preliminari, era già ingombra del suo cazzo durissimo, martellante. Ho protestato, ma Federico non mi ha dato retta. Ha continuato a fare dentro e fuori con violenza e ha iniziato a insultarmi: ero una puttana, una vacca, la sua mignotta preferita. Non mi aveva mai detto cose del genere, prima. Ho messo da parte lo stupore, ho curvato la schiena e ho preso il mio piacere fino in fondo, mentre lui, con le palpebre serrate, veniva gridando, mi strattonava la camicia da notte e i capelli. Gliene sono rimasti diversi, tra le dita. Mi ha fatto male.

«Che ti è preso?»

Si era già riaddormentato, non mi sentiva. Stamattina, mentre lo salutavo sulla porta, gli ho sussurrato i miei complimenti per avermi assaltata così, senza preavviso. Ha risposto che non sapeva di cosa stessi parlando, e che dovevo aver fatto proprio un bel sogno.

«Ero distrutto, neanche le bombe mi avrebbero svegliato stanotte, figurati tu!»

Mezz’ora dopo ho controllato e annusato le mie mutandine: erano bagnate del suo seme.

Le tre del mattino di venerdì. L’urlo con cui Martino mi ha svegliata non aveva nulla di umano: uno squillo di tromba, metallico e prolungato. Era disteso, immobile e pallidissimo, i capelli bagnati sulla nuca e lo sguardo fisso. Ho intonato il solito motivetto e lui ha taciuto d’improvviso. Poi però ha detto una cosa.

«È lì, l’ho visto… Mi ha preso Lele!»

Gli ho chiesto di chi parlasse e non ha risposto. Il cane di pezza, Lele, era accanto al cuscino.

«Mi ha preso Lele!» 

 Allora gli ho chiesto se fosse un adulto, alto o basso, oppure un bambino come lui, quello che aveva visto. Ha risposto di sì e io l’ho preso fra le braccia, ho continuato ad accarezzargli la testa, le mie dita immerse nel suo sudore colloso, finché non ha smesso di tremare e si è addormentato. Gli ho sistemato il pupazzetto accanto, sotto le coperte.

Due giorni dopo è notte fonda, so solo questo. Martino si è svegliato in preda al panico e io ho dovuto consolarlo, ancora una volta. Poi sono tornata a letto, ma non ho spento subito la lampada del comodino, con l’idea di leggere qualche pagina di un libro per conciliare il sonno, visto che mi sento del tutto sveglia. Invece mi addormento di colpo, a pancia in su, ma dopo pochi istanti apro gli occhi, sbarrati: su che mondo, però, non potrei dirlo. La stanza è la mia, mi sembra, vedo la luce ocra dell’abat-jour e sento che Federico mi russa accanto. Però c’è qualcosa di strano perché mi accorgo che mi sto guardando dall’esterno e nello stesso tempo non mi riconosco nella persona che dorme; infatti io non dormo, sono sveglia, eppure mi sto guardando mentre dormo: a questo punto devo fare qualcosa e cerco di alzarmi, ma non ci riesco, non posso muovermi, c’è come una forza che mi inchioda al materasso, anzi, non è una forza o un’impressione, c’è proprio qualcuno che sta provando a schiacciarmi, che vuole soffocarmi; vorrei gridare però mi trattengo, non voglio svegliare i bimbi e mio marito, sono in parte consapevole che il mio imbarazzo non ha senso in questa situazione, ma il terrore è più forte dell’imbarazzo e alla fine decido di urlare comunque. Carico in gola un grido che tuttavia non esce, è strozzato, è un gorgoglio ridicolo che percepisco appena, nel buio più totale, sotto forma di un flebile fischio colorato. Allora mi domando come mai la lampada sia d’improvviso spenta, se prima era accesa, ed è in quel momento che capisco con certezza di non essere sola. C’è una presenza, nella stanza, c’è qualcuno di sadico che mi fa degli scherzi per farmi impazzire e lo ricollego in un lampo a tutto quello che mi sta succedendo in questi giorni, le cose che non stanno al loro posto, le mie presunte dimenticanze. Di colpo intravedo qualcuno di conosciuto, seduto sul mio stomaco, ma che non riesco a distinguere. Mio marito? Mio fratello? Mio padre? Il padre di Federico? Pesa troppo per essere un bambino, mi schiaccia il ventre, mi afferra per le spalle e mi sbatte contro il materasso per annegarmici dentro, mentre mi sussurra cose orribili, me le proietta direttamente nella testa. Sono immagini vischiose di viscere arrotolate su sé stesse, che lui mi mostra ghignando, tra mille versi spaventosi tutt’intorno, mentre le raccoglie dal pavimento dello studio medico del dottor Verri e me le infila morso a morso nella pancia: se sporgo la testa in avanti, posso vedere il taglio che mi hanno praticato nell’addome, tenuto aperto dal dilatatore davanti a un pubblico indistinto e malevolo; posso guardarmi le interiora mentre quello ride e minaccia di interrompere l’operazione e di buttarmi le budella in faccia. Digrigno i denti al ritmo del letto che adesso vibra sotto i colpi del tormento, sussulta, si solleva e sbatte a terra come per effetto di un terremoto, mentre il lampadario ondeggia e le porte cominciano a sbattere, con contraccolpi violentissimi. D’improvviso sono fuori dal mio corpo, come prima, e posso dominare tutta la casa. È calato un silenzio terribile, tanto più tremendo dopo l’inferno di un istante fa. Ho la torcia in una mano e il coltello da cucina nell’altra. Prima mi avvicino al letto di Flavio, gli punto il fascio di luce contro, ma lui dorme bocconi e gli illumino soltanto una porzione della testa; poi mi dirigo verso Martino, che invece si è rovesciato e scoperto: osservo il suo petto che si alza e sia abbassa nel respiro, fendo il buio all’altezza del collo e avvicino la punta della lama con l’idea di infilarne un pezzettino nella pelle per capire se sto sognando o meno. In quel momento mi trovo di nuovo sotto il peso del mio assassino, la sua voce è un sibilo osceno che sa di latte rancido, la sua lingua è incomprensibile ma la capisco; tento di allungare un braccio per spostarlo e riprendere fiato, ma non si muove un muscolo, nessuna parte del mio corpo risponde al comando, nonostante gli sforzi sempre più terribili, sfiancanti. Allora decido che urlerò in quella stessa lingua, se necessario, gli urlerò di andarsene, di lasciarmi respirare, via! Ma ho della colla stesa sui lembi della faringe, che ne chiude le estremità: non mi esce che un suono di vetri rotti. Vedo, ma quanto vedo non lo riconosco. Forse solo la coperta di casa, quella verde e azzurra, sì. Ma se non posso afferrarla, se non riesco a toccarla, allora non esiste. Eppure io sento tutto, ci sono. Il letto riprende a traballare, la presenza ride.

«Chi sei?

La minaccia di morte raggiunge un culmine di terrore che non ho mai provato prima. Forse è finita, non tornerò più indietro. Forse ho oltrepassato il limite, e non sono più nemmeno viva. Galleggio, imprigionata in un corpo di colla, sotto il peso della colpa. Ho paura, ma la paura non può uscire, e allora lo fa il sudore, che gronda a litri dalla bocca, dal naso, dalle orecchie, dalla vagina, dall’ano.

*** *** ***

L’opera in fotografia a corredo del testo è “Aspettando” di Stefanie Oberneder: scultrice nata a Lindau, in Germania, nel 1976, l’artista vive e lavora a Carrara. Ha tenuto numerose mostre personali e collettive, in Italia e all’estero, ricevendo diversi riconoscimenti. Dal 2014 ha promosso e curato tutte le edizioni di “Carrara Studi Aperti”.


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