Quarto manifesto degli Imperdonabili. L’impegno della scrittura è già un ideale

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Il concetto ormai consacrato dal conformismo generale secondo cui l’autore, lo scrittore, o per usare un termine dispregiativo “pennivendolo”, debba soddisfare le esigenze del mercato o delle tendenze politiche dominanti, all’occorrenza servire un determinato sistema, è diventato un male più del male stesso. Il male è o sembra essere l’anticonformismo, la non appartenenza a una cerchia, a una bottega o a un modus politicizzato di vedere le cose. Quello che mi fa spesso storcere il naso è come mai esistano autori che, di punto in bianco, dal nulla, vengano trasformati dagli editori in macchine da guerra, in abili aspirapolvere di premi a più non posso, chiedendomi se il fatto conti davvero qualcosa per il lettore, quando il lettore non sia solo un lettore ma anche un critico. Le recenti polemiche sulla stroncatura e il dibattito conseguito all’allontanamento da Davide Brullo dal giornale on line Linkiesta sono il triste campanello d’allarme della realtà delle cose: viviamo in un territorio culturale cristallizzato dove non è ammesso diritto di parola da parte di chi è abituato a stroncare, per spirito, per attitudine, col conseguente danno professionale, per tutto ciò che può comportare lo scrivere per altre menti, farsi mentore di altre vite. Se da un canto mi sembra lapalissiano che tutto ciò è frutto del retaggio di un paese dove chi tiene le redini del potere detta legge e chi sta dall’altra parte sta a guardare, dall’altro mi chiedo come e fino a che punto questo gioco reggerà. Trovo deprimente notare che i nomi degli scrittori al vertice di premi e media di vario genere siano sempre gli stessi: è come se un carrozzone di circensi si spostasse di luogo in luogo devastando l’identità di un paese. Proprio così, l’intera identità di un paese nelle mani di quei nomi. Niente di più affascinante, in questa palude di propositi che è la repubblica delle lettere, l’idea di un manifesto che dia una scossa sussultoria a un sistema consolidato di idee, di canoni, di cariche elettive, da non confondersi con le affinità elettive, ciò di cui forse avrebbe bisogno questo mondo. Il dato più eclatante di questa situazione è il modo in cui, ogni qualvolta un fatto di cronaca invade i social, i paladini della verità consolidata corrano subito a farsi sostenitori della libertà ferita. Giusto, per carità, ma la ritrosia di altri, la timidezza di altri nell’esporsi non mi desta minore simpatia, all’idea di tanti territori esclusi, di tante e tante realtà cadute nell’emarginazione, di molte identità culturali obliate, specie in questo Sud, povero di sostegni finanziari, specie nelle isole, dove ancora più forte è lo scarto. Se nuotare contra currentem vuol dire alla fine di questo gioco salvarsi, non omologarsi, un’altra cosa è stare a guardare, invecchiare come l’uomo di campagna di Kafka che spera di perseguire la legge aspettando una vita intera che il guardiano gli dia il suo categorico assenso. Il sistema, è vero, vuole questo, censurare, mettere a tacere i folli. Meglio folli che servi del sistema. Io credo che noi, per usare un esplicito “noi” dettato dall’urgenza di parola di piccoli focolai di espressione, siamo stanchi di stare a guardare, e chi dice che creare un nuovo manifesto di intenzioni non è altro che obbedire a un nuovo sistema si sbaglia: chi scrive per scrivere e non solo per vivere obbedisce prima a se stesso che a tutti i minimi e massimi sistemi. Chi scrive per passione, chi si riconosce tra i sommersi perché non ha modo di mettere in risalto la sua attività di scrittore attraverso la sua attività professionale alla stessa maniera di certi intellettuali engagé, parlo ovviamente dei giornalisti politicizzati pagati a fior di soldoni, si pone questa domanda: può mai Facebook essere uno strumento valido per mettere in luce uno scrittore sconosciuto, una piattaforma che è diventata la peggiore fognatura degli sfoghi opinionistici tra le diatribe fascismo-antifascismo, porti chiusi-porti aperti, negazionismo-gretathunberghismo. Mi chiedo come mai dai tempi in cui Pasolini nelle sue interviste filmate in giro per l’Italia denunciava la speculazione edilizia e l’avanzata del progresso, attraverso la bocca della gente comune, il degrado e la cementificazione a tappeto delle periferie per fare posto a centri commerciali fotocopia non interessi a nessuno, così come la battaglia contro la plastica sembri molto più accattivante che prendere di mira l’immobiliarismo sfrenato della giunta Sala a Milano, tutto sempre nel buon nome dell’ideologia ecologista, attraverso la prosopopea green dei giardinetti verticali. Le lingue europee, si sa, sono l’humus primordiale degli ismi e chi scarseggia nel suo proprio mestiere di ideologismi, di un po’ di comunismo, vocabolo vetusto ma di effetto, o di leghismo, rischia di passare per un poveraccio, per uno senza ideali, come se scrivere non fosse già di per sé un ideale, seppure il più effimero tra gli ideali contemporanei.

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Fotografia a corredo di Michela Bin, per gentile concessione dell’autrice. Nata a Trieste nel 1972, Michela Bin è laureata in archeologia medievale presso l’Università di Trieste; appassionata di fotografia da sempre, ha approfondito le sue conoscenze, tra gli altri, con Graziano Perotti.


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