Violenza verbale, violenza fisica. Stefano Cucchi e il proliferare dei doppi

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Era quasi giunto il suo turno, non ne poteva più di aspettare. Su quella sedia non riusciva a trovare una posizione in cui non gli facesse male il culo. Almeno un cuscino potevano comprarlo! Erano solo capaci di chiedere soldi… Le tariffe erano sempre più alte e prenotare una stanza nel fine settimana pareva pressoché impossibile: una volte su due arrivava il sold-out. E pensare che fino a qualche mese prima nessuno sapeva dell’esistenza di quel posto. Adesso invece bisognava accontentarsi di una sessione condivisa.  

La Rage Room era così allestita: in un angolo l’oggetto più grande, una lavatrice con lo sportello aperto e un pulsante rosso che dava sui nervi, circondata da un esercito di bottiglie e bicchieri. Sul lato opposto, un televisore, una pila di dvd, una stampante e un lampadario di cristallo a forma di mongolfiera stavano ammassati alla rinfusa. Un servizio di piatti, diversi l’uno dall’altro, e un albero di Natale perfettamente addobbato erano invece addossati contro l’immancabile armadio Ikea.

Prima di infilare caschetto, guanti e ginocchiere, Giulio fece scrocchiare le dita, un’abitudine che si portava dietro da quando era bambino; ereditata forse dal padre, un sergente dell’esercito sempre in uniforme: lui era arrivato a pensare che se la fosse fatta tatuare addosso, magari per risparmiare i soldi della lavanderia.  

Giulio e i suoi “compagni di rabbia” avevano acquistato il pacchetto «Questa vita è una merda», che prevedeva la distruzione di 40 oggetti al costo di 25,99 euro e una colonna sonora a scelta. La sessione terminava dopo trenta minuti con l’esplosione di una sirena. Un suono stridulo, odioso, talmente forte che era impossibile non incazzarsi.

«Che il Signore sia con noi.» 

Giulio era girato di spalle e stava raccogliendo da terra il machete.

«Faccia pure con calma.» 

Lui sollevò l’arnese e si voltò, senza troppa voglia di chiacchierare. Aveva altro per la testa. Del resto sapeva di risultare antipatico, ma non lo faceva apposta. «Buongiorno…» e si interruppe, spiazzato dal collarino ecclesiastico che cingeva il collo dell’uomo.

«Buongiorno un cazzo,» quello si passò una mano sulla nuca. Lo sconosciuto gli arrivava sì e no all’avambraccio, e aveva in mezzo alla faccia un naso sproporzionato, come se appartenesse qualcun altro.

«Prego?» 

«Anche gli uomini di chiesa possano essere incavolati, non crede?» Poi, dimenandosi, il prete cercò di sfilarsi la tunica dalla testa, ma per alcuni istanti rimase intrappolato nella stoffa. 

In quel momento, il proprio campo visivo intercettò una moretta dai capelli a caschetto: si lasciava dietro un odore di latte rancido, di sigaretta spenta nell’umido. «Mi consola sapere di essere in buona compagnia.» Indossava un paio di scarpe viola con i tacchi a spillo e una minigonna leopardata che le aderiva sui fianchi, le lasciava scoperte un paio di gambe striminzite. «Cosa avete da fissare? Non avete mai visto una puttana?» 

Il prete abbassò lo sguardo; poi, dopo essersi segnato, indossò le protezioni per busto, tibie e genitali.

Anche Giulio evitò di rispondere per non alimentare la tensione. Andava stoppata sul nascere. E poi odiava le domande stupide, perché finiva spesso col rispondere in modo offensivo. Fece un respiro profondo ed espirò lentamente, ma benché cercasse di mostrarsi tranquillo, smaniava dalla voglia di sfogare la rabbia nei muscoli. Era sul punto di esplodere. Gli capitava spesso di sentirsi così e l’unico modo per liberarsi era urlare, fracassare tutto, menare le mani. Niente lo spaventata o lo faceva desistere. Affrontava tutti a muso duro. Il suo gancio destro era devastante, se ben piazzato poteva frantumare le ossa del volto. 

La ragazza sistemò il reggiseno sotto la maglia. «Posso farvi una domanda?» Fece una breve pausa. «Perché venite qui?» Poi, senza dare il tempo di rispondere si sporse in avanti: «Cercate anche voi un antidoto per scacciare la malinconia?» Si tirò all’indietro, sulle gambe malferme. «Per carità, se preferite non parlarne lo capisco.» 

«Non so lei,» il viso del prete era diventato più cupo di un confessionale, «ma io ho fretta di iniziare la terapia.» Dopo aver baciato il rosario che teneva in tasca, strappò un’ascia metallica dall’armadio e l’abbatté con ferocia sulla lavatrice. Urlava e colpiva, colpiva e urlava, con il sudore che gli colava sulle guance. 

Giulio, a sua volta, si scagliò sul lampadario: un tremendo boato riecheggiò nella stanza e schegge di cristallo divamparono ovunque, colpirono il prete sulle braccia. 

Nel frattempo, le casse dell’impianto avevano preso a sparare l’Inno alla Gioia al volume più violento possibile.

Anche la ragazza si lanciò all’attacco e con un urlo scaraventò i bicchieri contro le pareti, riducendoli a brandelli appuntiti. Sembrava sotto l’effetto di qualche droga: aveva la bava alla bocca e i suoi occhi rovesciati all’indietro mostravano il bianco dell’estasi. Stava ancora sfasciando i piatti ovali da portata quando la musica cessò all’improvviso: nella stanza, adesso, c’era solo l’affanno del prete.

«Una vigilia di Natale perfetta!» La voce della moretta si era fatta più roca. «So che non è affar mio,» lo guardò di nuovo, «ma cosa ci fa un prete in un posto come questo?» Si scostò i capelli dalla fronte apposta per fissarlo. 

«Crede di essere l’unica al mondo a soffrire?» l’uomo strizzò gli occhi e batté i piedi sul pavimento, saltellando sul posto. «Tutti gli squilibrati vengono da me: chi a confessare qualche porcheria, un altro per chiedere i soldi dell’eroina, tutti quanti mi rovesciano addosso la cattiveria che coltivano. E a me chi ci pensa? Assorbo troppe schifezze.» Aggiunse che si sentiva stremato, e se non avesse staccato un po’ la spina, prima o poi avrebbe ucciso qualcuno.

«La capisco benissimo,» la ragazza si appoggiò al muro con la schiena, accese una sigaretta. Anche lei si sentiva nauseata dalla gente che piagnucolava per qualunque cosa: la loro presenza trasmetteva energia negativa. Vedeva ovunque frustrati che scaricavano sugli altri malumori e insicurezze, alimentando un vortice di aggressività che nuoceva a tutti. «Viviamo nella società della rabbia compressa e siamo sempre più violenti, almeno a parole.» Diede due boccate fissando quello che restava del lampadario. «Non so, magari è sempre stato così, ma ho l’impressione che si sia perso il valore della vita umana.»

Il prete scrollò la testa: «Tutta colpa del consumismo, che ci vota all’affermazione di sé, al successo, sempre e a qualunque costo, anche a danno degli altri.»

La ragazza fece una smorfia prima di spegnere la sigaretta sotto il tacco: «Guardi cos’è successo a quel ragazzo.» La notizia era su tutti i giornali e la televisione continuava a riproporre lo straziante appello dei genitori di Maurizio [omissis]. Lo studente era biondo e aveva due orecchini uniti da una catenella: uno sul lobo, l’altro sulla parte alta dell’orecchio. Indossava spesso, nelle foto, un bomber giallo di una taglia più grande di lui e camminava molleggiandosi sulle gambe, i pollici infilati nei passanti dei jeans. Non era grasso né magro, ma una via di mezzo. Bazzicava un bar malfamato e i suoi amici erano quasi tutti dei tiratardi. Nella notte tra il 6 il 7 dicembre, il suo corpo era stato ritrovato senza vita nelle acque di un canale non distante da lì, con strane escoriazioni sulla fronte. 

Giulio faceva finta di non ascoltare, ma in realtà non perdeva una sola parola.

La ragazza si accese un’altra sigaretta: «Gira voce, dalle mie parti, che alcuni sbirri abbiano l’abitudine di buttare le persone nel fiume dopo averle pestate a sangue.» Del resto, negli ultimi tempi erano emersi diversi abusi da parte delle forze dell’ordine e alcune famiglie reclamavano ancora giustizia, come nel caso di Stefano Cucchi

Mentre quella parlava, il prete si guardava attorno con aria sospettosa, il respiro su di giri. Poi le si fece davanti: «Maurizio veniva spesso in chiesa, a chiedere l’elemosina. Era un poco di buono e secondo me quella notte era strafatto di qualcosa, immagino crack. Avrà perso l’equilibrio per finire nel canale. Non vorrei ripetermi, ma è tutta colpa del consumismo.»

Anche Giulio fece un passo verso la ragazza, ma poi si fermò. Aveva fatto male ad accettare di condividere la stanza, doveva starsene da solo, come faceva di solito. Forse avrebbe dovuto spendere qualcosa di più e prenotare il servizio «tutti contro tutti»: una specie di ring diffuso dove le persone potevano fare a botte liberamente. Nessuna regola, nessun arbitro, nessun divieto. E se qualcuno moriva peggio per lui: prima di usufruire del servizio, ogni utente doveva compilare un modulo di manleva. Perché non c’era andato subito? 

Uscì dalla stanza e si precipitò per le scale: quando arrivò al desk scoprì che il ragazzo seduto dietro al bancone era la fotocopia vivente del giovane scivolato nel fiume, gli assomigliava in un modo che toglieva il fiato. Giulio firmò sovrappensiero, poi prese a salire le scale due, tre gradini per volta. Correva e ansimava, spinto dall’irresistibile desiderio di vedere delle facce gonfie di sangue e terrore, ma come entrò nella stanza del ring si imbatté di nuovo nel ragazzo del desk, che poi era la fotocopia di Maurizio: si stava infilando un paio di guantoni da boxe. Che fosse un gemello? Dentro che razza di scherzo era finito? Si guardò attorno e si accorse che tutte le persone presenti avevano la stessa faccia, lo stesso sguardo impaurito. Uguali in ogni dettaglio, come se fossero un’unica persona: uno, dieci, cento Maurizio, quello col bomber giallo, due orecchini uniti da una catenella e i pollici infilati nei jeans. Identici anche nei movimenti, compresi in una lentezza esasperante. All’improvviso, tutti quei sosia si fermarono e presero a fissarlo. Cosa volevano da lui? Si sentì una risata – giovane, fresca –, seguita da uno scroscio di sghignazzi più forti, che gli causarono un dolore al petto. Provenivano da tutte le parti: dai muri, dal pavimento, dal soffitto. Fece per tapparsi le orecchie, ma prima di avere il tempo di premere le dita, una forza misteriosa lo trasportò dabbasso, in strada, davanti a un enorme pupazzo di neve. Intorno c’erano tanti bambini che strillavano, mentre si prendevano a pallate sulle note di Last Christmas. 

«Sa che fine ha fatto mio fratello?»

Giulio si voltò e vide un bambino col cappotto rosso, che lo fissava. Capì al volo di chi stesse parlando, d’altra parte tutto aveva una sua logica in quel mondo fuori di sesto. I pensieri gli si ingarbugliarono nella testa, e per non mentire a un bambino scappò via e si ritrovò a correre senza una meta, lungo una strada che non conosceva, fino a quando fu investito da una visione: non l’avrebbe mai raccontata a nessuno, ma la cosa che vide gli cambiò la vita in un momento.

Mezz’ora più tardi bussò alla porta del Comandante.

«Chi cazzo è che rompe i coglioni la vigilia di Natale?»

Giulio entrò e chiuse la porta dietro di sé: «Forza, mi metta le manette.»

«Che manette? Non ho voglia di scherzare!»

«Ho ucciso un ragazzo.»

L’ufficiale sbuffò, prese il cellulare dalla tasca della giacca: «E io sono Babbo Natale.» 

Giulio diede un pugno sulla scrivania. «Ho ucciso di botte Maurizio [omissis], poi ho gettato il cadavere nel fiume.»

«E sentiamo, perché l’avresti ammazzato?» l’uomo scoppiò a ridere.

«Ecco, non me lo ricordo, forse perché la Rage Room era sold-out.»

Il Comandante si alzò, fece il giro intorno alla scrivania, gli posò una mano sulla spalla: «Non ti crederebbe nessuno, le forze dell’ordine non fanno queste cose.» Poi tornò a sedersi, senza mai staccare lo sguardo dal pavimento: «A che ora inizia il tuo turno? Abbiamo bisogno di uomini come te, forti e determinati.»

*** *** ***

Fotografia a corredo di Michela Bin, per gentile concessione dell’autrice. Nata a Trieste nel 1972, Michela Bin è laureata in archeologia medievale presso l’Università di Trieste; appassionata di fotografia da sempre, ha approfondito le sue conoscenze, tra gli altri, con Graziano Perotti.


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