Recensione n. 44 al Colibrì di Sandro Veronesi: come e perché liberarsi del vecchio romanzo italiano

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In un articolo sul Fatto quotidiano del 24 dicembre scorso, Daniela Ranieri ha contato 43 tra recensioni o menzioni del romanzo Il colibrì di Sandro Veronesi solo sul Corriere della Sera e i suoi inserti. In altri giornali e trasmissioni radio/tv, la fortuna di questo romanzo non è inferiore, e ovviamente ha avuto il plauso della specie letteraria protetta (Veronesi è stato, negli anni ottanta, segretario di redazione della rivista “Nuovi Argomenti”, come ci ricorda Christian Raimo anche qui).

Mi accingo a scrivere l’ideale recensione numero 44 sotto il peso di una ricezione critica unanime, che tuttavia ho ignorato (come ho per un attimo messo da parte i premi e il resto di libri in carriera, me ne scuso sin d’ora) per consentire all’autore di scomparire dentro il testo letterario. Da cosa dipende, infatti, il «prestigio» di un romanziere realista, se non dal «gioco di prestigio» con il quale l’autore scompare dietro la prospettiva del vice-narratore (o personaggio principale) per poi ricomparire – senza che il lettore se ne accorga –, nel controllo sintattico, lessicale, temporale con cui conferisce «l’illusione di realtà» al racconto?

E qui cade subito il primo problema, che è anche il principale: l’autore del Colibrì non scompare quasi mai, per la semplice circostanza che l’intera vicenda è gestita dal punto di vista di un narratore onnisciente – ancora? – che invece di narrare, per lo più, affabula. Ma seguiamo lo sviluppo dei primi capitoli, per farci un’idea meno approssimativa possibile.

Primo capitolo, incipit: «Il quartiere Trieste di Roma è, si può ben dire, il centro di questa storia dai molti altri centri. […] Inutile descriverlo oltre, perché la sua descrizione potrebbe risultare noiosa, all’inizio della storia, addirittura controproducente. Del resto, la migliore descrizione che si può dare di qualunque posto è raccontare cosa vi succede, e qui sta per succedere qualcosa di importante.»

Chi parla qui? È l’autore, appunto, in bella evidenza come nelle favole davanti al camino, che si rivolge direttamente al lettore (in prima persona plurale, poco più avanti) e profetizza una necessità di lettura tutta da dimostrare; è una voce ironica che passa dal letterario più classicheggiante – «egli» anziché «lui» –, al colloquiale – «fa capoccella» aniziché «fa capolino», espressione che rimane triste tanto quanto –, con rime interne (non volute) e ripetizioni (volute) nella modalità semplice e usurata, ma sempre efficace presso un certo pubblico, della filastrocca. Stile descrittivo-riassuntivo da verbale o referto, non narrativo (spiega, non mostra). Impressione di scrittura non controllata, sciatta. Esempio: «Il destino sta aspettando di travolgerlo per il tramite di un ometto basso…» Per il tramite? Un ometto basso? Se poi è «un ometto», non è già basso?

Secondo capitolo: è tutto un botta e risposta, nella forma del “terzo grado”, quindi produce un buon senso di minaccia che consente di fornire diverse informazioni funzionali alla narrazione, senza che il lettore se ne accorga. Mi sarebbe piaciuto, se solo l’autore non avesse inflazionato lo stratagemma impiegandolo tale e quale in tutti i dialoghi successivi, anche quelli privi di mordente.

Terzo capitolo: una lettera (in corsivo!) con dei pensierini d’amore dove il massimo dello sforzo narrativo è affidato a una similitudine animale (coi fagiani) purtroppo anche insistita (ma per fortuna l’estensore ci informa che «è finito il foglio»).

Quarto capitolo: la storia dell’amicizia tra Marco e Duccio è resa con buona sintesi, anche se il dettato presenta sempre troppe rime interne (non volute), ripetizioni (volute) e avverbi in “mente” (tre nel giro di un paragrafo). Riesce assai meno l’uso dello stile indiretto libero, in quanto è gestito dal narratore onnisciente e non dalla prospettiva di un unico vice-narratore per volta. Ogni personaggio risulta così proiettato su un piano oggettivo-descrittivo che lo appiattisce in una caricatura o in una funzione narrativa, da cui non esce mai. Vedi la descrizione di Duccio «dal sorriso cavallino, talmente magro da sembrare sempre di profilo». Inoltre l’autore non sorveglia l’impiego dei modi di dire del giornalismo o del linguaggio corrente, tipo «avere il gioco nelle vene» o «evitare come la peste».

Quinto capitolo: breve lettera di risposta (sempre in corsivo, tutto quello che deve apparire di natura documentaria d’ora in avanti viaggia in corsivo, per esempio le email) di Luisa, che replica al fagiano con un passerotto e descrive nuove emozioni e pensierini “in presa diretta” (tutto il libro è un inno all’«ideologia della verosimiglianza», come la chiama Walter Siti).

Sesto capitolo: parte tutto con una preterizione del narratore onnisciente – il protagonista, durante l’infanzia, «non si era accorto che» – poi ripetuta come anafora per ben sette volte nel giro di due pagine, quindi la gestione retorica è scoperta e appiattisce la narrazione. La retorica, infatti, è sempre all’opera, ma si divide in buona o cattiva: la seconda è quella di cui il lettore si accorge, come l’anafora per esempio, che è un po’ il grado zero di ogni espediente retorico. Dal punto di vista del contenuto, torna prepotente l’oggetto principale della narrazione, la psicanalisi, intesa però come origine di problemi esistenziali più che soluzione agli stessi. Tuttavia, per fare dell’anti-psicanalisi si fa della psicanalisi: non è solo un comico paradosso del protagonista, ma di tutto il libro, che è una specie di Coscienza di Zeno parodiata, sì, ma fuori tempo massimo. Quindi vale la stessa domanda che viene posta nel finale di capitolo – «Perché con tante donne al mondo che non andavano dall’analista lui si ritrovava legato solo a quelle che ci andavano?» –, che però ribalterei in questo modo: «Perché con tanti lettori al mondo che non vanno dall’analista, Veronesi si ritrova legato solo a quelli che ci vanno?» La mia parafrasi della frase successiva – «E perché la sua teoria sulla psicanalisi passiva preferiva esporla a loro, sentendosi dare del superficiale, piuttosto che alla suddette donne non praticanti, presso le quali avrebbe riscosso un prevedibile successo?» –, potrebbe rispondere così: «Perché l’autore spera, parodiando una moda dell’élite, di ottenere un “prevedibile successo” presso i lettori non praticanti, che sono la maggior parte.»

Inutile continuare capitolo per capitolo, poiché la struttura è questa e resta pressoché identica fino alla fine: si tratta di una vicenda priva di un nodo drammaturgico forte, che ne renda indispensabile la lettura, dall’ordito lineare e lo sviluppo esile, scontato, a cui l’autore cerca di porre rimedio con un patchwork tra missive, digressioni storico-architettoniche e giudizi dell’autore, descrizioni onniscienti, ripetizioni formali e di concetto, dialoghi lunghi interi capitoli fatti di soli botta e risposta, anche quando non c’è terzo grado o resa dei conti o litigio a giustificarli: risultano, tra l’altro, per nulla credibili e anzi assolutamente “telefonati”, visto che: 1) i dialoghi riportano sempre e solo il cosa si dicono i personaggi e quasi mai il come se lo dicono, ovvero non mettono in scena la relazione tra gli interlocutori, sono sempre comunicazioni “appropriate” come tra estranei – es: «Che ore sono?» «Sono le sei.» –, quando la comunicazione umana è spesso l’esercizio di una manipolazione (e comunque l’unico esercizio che interessi il romanzesco) – es: «Che ore sono?» «Hai furia?»; 2) l’autore fa spiegare di continuo il sottotesto ai suoi personaggi, oppure li strumentalizza in quanto non sa (o non vuole, perché magari farebbe selezione tra i lettori) gestire la polisemia del testo e quindi diventa vittima di un didascalismo esasperante. Esempio: la telefonata tra lo psicanalista Carradori e il protagonista Carrera, visto che gli scambi “in battuta” non sono gestiti come “scambi incrociati” o “scambi con trappola”, viene metaforizzata con il ricordo di un vero e proprio match tennistico che si sarebbe tenuto nel passato dei due interlocutori – che poi sono un “Io diviso”, come da cognomi quasi uguali! –, con questo passaggio: «Allora è proprio lei: Rovereto, 1973, o ’74, l’anno non lo ricordo. Primo turno. Carrera Marco batte Carradori Daniele 6-0 6-1.» Ecco spiegato il senso del capitolo, nel caso il lettore non ci fosse arrivato (e in effetti, per come era costruito il dialogo, non ci poteva arrivare senza la didascalia).

Elenchi numerati! Grassetti! Capitoli in forma di Sms! Ora, qualche anno fa Rizzoli ha provato a pubblicare un meta-libro – S. La nave di Teseo di Doug Dorst e J.J. Abrahams –, che è pieno di simil-lettere, francobolli e indizi, ma quella era l’idea alla base di tutto, una trovata che aveva almeno il merito della coerenza. Qui lo si fa per dare movimento a ciò che resta fermo, e il libro ne esce privo di una personalità stilistica chiara. Un capitolo, per esempio, è un intero inventario, con tre pagine di elenchi di oggetti borghesi: nessun filtro, e allora a cosa serve lo scrittore? Facciamo come Camilleri, che quando doveva inserire un verbale dei carabinieri lo riscriveva tale e quale? L’arte consiste nel restituire quanto è noioso in modo non noioso, ciò che appartiene al documento in maniera non documentaria. Altrimenti lasciamo scrivere i romanzi al Censis, che è il regno del verosimile.

I balzi temporali sono troppi: non ci sono due o tre tempi della narrazione, ce ne sono almeno cinque (prima e dopo la morte della sorella, della figlia, della madre e del padre) e alcuni sono mischiati a capriccio (2015, poi 2012, poi 2018, poi di nuovo 2012): questa decisione non solo disorienta il lettore, senza tuttavia confonderne il senso di realtà (ammesso che fosse lo scopo), ma accentra l’attenzione sulla struttura (vedi l’uso del corsivo per i reperti documentali): come per l’impiego scoperto delle figure retoriche, la vistosa macchinosità della sequenza svela la macchina illusionistica, che invece dovrebbe rimanere il più possibile sottotraccia (a meno che non si voglia costruire un romanzo post-moderno o sperimentale, ma non è questo il caso perché la gestione complessiva risulta del tutto ordinaria).

Il didascalismo e l’ambiguofobia – ossia l’attitudine dell’autore a interpretare in modo univoco ogni scena, senza lasciare spazio all’indagine attiva del lettore, senza cioè far respirare quello che Tondelli chiamava «il mistero del mondo» –, regnano sovrani ovunque (è il caso di dirlo, perché questo atteggiamento è l’altro nome del «sovranismo psichico» dell’autore). L’autore continua infatti a mostrarsi al lettore-discente o lettore-bambino attraverso i suoi personaggi: una lettera al fratello, che occupa un capitolo, è dedicata a un elenco di libri Urania che mancano dalla collana del padre, un elenco estenuante, a metà del quale lo stesso Veronesi subodora l’abbandono della lettura e fa scrivere al suo personaggio: «Seguimi, Giacomo, non smettere di leggere. Cerchiamo di capire perché mancano, questi cinque fascicoli…» – un tentativo di giocare d’anticipo la noia del lettore, che tuttavia continua a provarla. Inoltre, nonostante l’afflato progressista, torna in modo sistematico questa superstiziosa ossessione per il «destino dei nomi» dei personaggi, che per l’autore dagli studi classici hanno sempre un significato preciso di cui informarci. Per tutta conseguenza, non esiste un solo personaggio che ci prenda in contropiede rispetto all’idea che l’autore se ne è fatto e alle aspettative che ci costruisce intorno: l’inafferrabile articolazione della realtà umana – la stessa che di continuo ci sorprende “perché supera la fantasia” – è ridotta a una costante per la dimostrazione del teorema dell’autore.

Ma il capitolo meno riuscito è quello in cui si sussegue un numero spropositato di pagine per descrivere la sensazione di chi riceve una telefonata nel cuore della notte. Il lettore va terrorizzato, non gli va spiegato come e perché dovrebbe farlo: questo lo fanno i giornalisti, che hanno poche battute a disposizione e sono costretti a citofonare l’emozione, magari con gli aggettivi, invece che farla provare al lettore con la forza pittorica del dettaglio o l’impiego performativo della sintassi o la polisemia lessicale.

Esagero?

«Non è un discorso razzista, spero che lei capisca, dico “razze” per comodità.» Non c’è bisogno della giustificazione, tutti i protagonisti sono politically correct fino all’anti-stereotipo (che tuttavia resta stereotipo, un po’ come l’anti-psicanalisi rispetto alla psicanalisi). Quando poi il protagonista incontra dopo cinquant’anni un suo vecchio compagno di bisca, l’autore è preoccupato che il lettore non avverta quanto il momento sia topico, quindi lo istruisce di conseguenza:  «C’è qualcosa di glorioso nei ricordi che hanno in comune.» Eh no, se il lettore non l’ha capito da solo, suggerirlo dalla buca non serve che a svilire la scena.

Quanto invece alla storia d’amore platonica lunga cinquant’anni con Luisa, è il trionfo (un po’ troppo patetico, ma ho capito che per Veronesi non costituisce un problema) della menzogna romantica: manca del tutto la verità romanzesca ossia il momento apocalittico che riveli le illusioni (borghesi e non) per quello che sono. Questa mancanza non è da poco perché condanna il libro, che pure ospita pagine più felici – per esempio quelle smaccatamente comiche –, a essere un romanzo borghese a tema, cioè con un messaggio o una morale preconfezionata, di impostazione comico-grottesca (quindi classista, nella maggior parte dei casi), anziché ilaro-tragica (perciò universale) come nelle vette del genere (Madame Bovary è il modello, ma per l’Italia mi piace menzionare anche Camere separate del solito Tondelli).

Ma veniamo al confronto con gli scrittori miei coetanei, che dopotutto è quello che mi interessa di più, visto che la presente analisi non è rivolta a contestare Veronesi e il pubblico svanente del vecchio romanzo italiano, quanto a indicare un’estetica alternativa che possa conquistare alla lettura il pubblico dei venti/quarantenni. Raimo ha scritto, al termine della sua recensione molto positiva e quasi del tutto priva di riserve, che «se uno scrittore italiano vuole imparare a scrivere, deve leggere Veronesi. Il colibrì, oltre a essere un romanzo coinvolgente e commovente, è un manuale di scrittura. L’uso dei tempi verbali è semplicemente ammirevole, i dialoghi sono sticomitie oliatissime, l’uso delle anafore è magistrale, e più di tutto la sapienza sulle ellissi è tanto calibrata da poter generare solo incanto, una suspension of belief sempre più rara quando ci si mette con un libro davanti.»

Ora, nel segnalare di passaggio che la suspension of belief non esiste, mentre esiste la suspension of disbelief, – la «sospensione della credulità» è secondo me un lapsus formidabile, circa l’idea di lettore “da istruire” che in genere si coltiva –, io credo che parlare di questo romanzo come di un «manuale di scrittura» non rappresenti esattamente un complimento: proprio la scrittura “da manuale” (inflazionata per statuto, altro che «oliatissima») ha reso il canone nazionale sempre meno interessante, innovativo… Più che modello per i giovani scrittori e per il futuro del romanzesco, infatti, questo libro appartiene a una linea epigonale novecentesca – secondo una schiatta che lo stesso Raimo individua in Moravia & Co. –, ampiamente superata sia dal punto di vista tecnico che tematico.

Vi sopravvivono, infatti, tutti i cascami e le tare che ho indicato e che dobbiamo lasciarci alla spalle se vogliamo creare un’esperienza di lettura nuova, quella che i lettori più giovani ormai disperano, dannazione, di poter trovare (e infatti ci salutano per forme artistiche meno tradizionaliste).

***

L’opera in fotografia a corredo del testo è il quadro “Iris”, (2000, olio su tela, 42 x 42 cm), di Floriane Pouillot, per gentile concessione dell’autrice. L’artista (1976) ha studiato all’Accademia di Belle Arti di Carrara. Ha collaborato con la casa editrice Transeuropa dal 2004 al 2013, curando la grafica di tutte le collane e del sito web. Insegna Disegno e Storia dell’Arte, si occupa di progetti di illustrazione, grafica e stampa hand made.


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