Il talento ai tempi della tecnica: transumanesimo e lobby del calcio

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Mi chiamo Cristiano, e gioco a pallone da quando avevo cinque anni. A quanto dice mia madre, i primi calci dovrei averli rifilati a Ubaldo, un orsacchiotto di peluche con le orecchie alzate e due occhi perfettamente rotondi. Qualche anno più tardi, sempre lei mi accompagnò alla scuola calcio del quartiere. Da non crederci, fu un’esperienza terribile: i miei coetanei erano quasi tutti più alti di me, più veloci; sembravano calciatori fatti e finiti, dal futuro assicurato. Rispetto a loro mi sentivo un poveraccio; il mio ruolo era raccogliere i palloni e chiuderli in una rete mentre gli altri sghignazzavano alle mie spalle. La cosa mi turbò a tal punto che decisi di allenarmi di nascosto, in ogni momento libero della giornata, fino allo stremo, nel tentativo di bilanciare le ingiustizie della vita. Palleggiavo contro il muro, mentre andavo a scuola, perfino guardando la televisione. Palleggiavo sempre. Volevo diventare il migliore ed ero disposto a dare tutto, ad accettare qualsiasi sacrificio. Rinunciavo ai compleanni, alle vacanze, alle uscite del sabato, a qualunque cosa pur di raggiungere il mio obiettivo. Arrivavo al campo un’ora prima degli altri e dopo l’allenamento correvo sulla pista d’atletica fino a quando i polmoni mi urlavano di smettere, oppure mi mettevo a tirare in porta, a battere rigori, punizioni e calci d’angolo. Non mi importava delle occhiatacce dei compagni. Alcuni di loro erano diventati quasi dei nemici, soprattutto quelli che si vantavano di essere dei campioni pronti a spiccare il grande volo. Per quanto mi riguardava erano liberi di pensare ciò che volevano: io continuavo dritto per la mia strada, senza farmi condizionare dai loro commenti. Tralascio il resto della mia adolescenza, ma solo perché il tempo stringe e ho altre cose, ben più importanti, da raccontare sul mio conto.

Ho vinto tanti trofei e in giro dicono che sia un marziano, ma negli ultimi due anni la mia carriera, anzi, la mia vita, ha preso una piega inaspettata, quasi assurda. Tutto ebbe inizio un mese prima del mio compleanno: mi stavo allenando da solo in palestra, quando entrò un uomo stempiato che teneva una valigetta metallica con sé. Aveva le orecchie appiccicate al cranio e la pelle del viso tirata dai lifting. 

«Noi conosciamo i suoi desideri,» si lisciò i baffi che gli coprivano interamente la bocca.

«Che cosa?» 

«Sappiamo tutto di lei.» 

Come rispondere? Ero incantato dalla sua voce profonda, che infondeva sicurezza.

«Il sogno dell’immortalità è universale. È il desiderio dei desideri,» aprì la valigetta e tirò fuori una scatola gialla: da alcuni fori spuntavano cavi elettrici. Sembrava un modem. «È disposto a rinunciare alle sue emozioni per superare i limiti della natura?»

Era una cosa a cui non avevo mai pensato. 

«Mi riferisco alle emozioni primarie,» e le elencò una per una: paura, sorpresa, avversione, rabbia, gioia, tristezza.

Dopo aver sorriso in modo complice, si chiuse la porta alle spalle. La nostra conversazione doveva restare segreta. Mi spiegò che il calcio si stava trasformando in uno sport per atleti senza età e impiegò termini che all’epoca non conoscevo: mitocondri, autopoiesi, rifiuti extracellulari. Poi illustrò la sua proposta, e quando finì di parlare sorrise di nuovo. Ma questa volta fu diverso, forzato. «Le capacità intellettive degli esseri umani sono limitate, se paragonate a quelle di un computer.» 

Non riuscivo a credere alle sue parole, tuttavia nella mia testa accadde qualcosa. Mi sentivo stordito, confuso. Che avrebbero pensato di me se avessi accettato? Eppure si trattava di una proposta più che allettante. Il massimo che potessi desiderare. Forse avrei dovuto prendere tempo, ma l’offerta esigeva una risposta immediata. La scelta era irreversibile. Prendere o lasciare. 

Accettai.

Chi non lo avrebbe fatto al posto mio? L’idea di diventare un cyber-calciatore, un ibrido umano perfezionato in modo bio-medico, era pazzesca. Non sarei più invecchiato, sarei rimasto in forma per l’eternità: fisico asciutto, pettorali ben delineati e addome scolpito. Avrei giocato cento, mille anni senza stancarmi, senza mai un infortunio, e per ottenere questo ben di Dio bastava un software nel cervello e un centinaio di microelettrodi nelle braccia, nel torace, nelle gambe. L’installazione era però subordinata alla rinuncia a un’emozione primaria e all’asportazione dei relativi fasci di nervi: il corpo umano non era sufficientemente grande da ospitare nuove applicazioni.

Comunque sia, io scelsi la tristezza. Certo, non ero l’unico a godere dei favori dell’intelligenza artificiale. Altri, prima di me, avevano già battuto la stessa strada, anche se l’uomo dalla valigetta non volle fare nomi per motivi di privacy. 

Un mese più tardi divenni a tutti gli effetti un cyber-calciatore e alla fine della prima partita mi sentivo imbattibile. Anzi, lo ero: imbattibile e immortale.

Non rivelai il mio segreto a nessuno. Fino a oggi, almeno. 

Dopo un po’ di tempo venne a farmi visita il mio mentore, che si complimentò per la forma fisica e mi fece una seconda offerta: mi avrebbero aumentato la capacità di elevazione e sarei arrivato a toccare quota 3 metri e 59 centimetri. In cambio, dovevo rinunciare ad almeno tre emozioni secondarie. Anche in quell’occasione, per facilitare la mia scelta, le enumerò una per una: ammirazione, adorazione, apprezzamento estetico, divertimento, ansia, soggezione, imbarazzo, noia, calma, confusione, desiderio ardente, dolore empatico, estasi, eccitazione, orrore, interessamento, nostalgia, sollievo, amore romantico, soddisfazione, desiderio sessuale.

«Se vuole stare al passo coi tempi deve potenziare il suo software. Consideri che l’80% dei calciatori sono cyborg, quindi la concorrenza è sempre più agguerrita. Del resto, in un futuro non troppo lontano, sarà difficile capire dove finiscono gli esseri umani e dove iniziano le intelligenze artificiali. Gli ibridi saranno un fatto del tutto normale, perfino ovvio.» 

Non ci pensai troppo: la capacità di elevazione era fondamentale. Non potevo farne a meno. Mi sottoposi a un nuovo intervento (mi impiantarono un microchip nel cervello) e rinunciai alle tre emozioni che ritenevo meno nobili: nostalgia, ansia e dolore empatico.

La faccenda si ripeté altre volte e poco a poco migliorai la resistenza allo sprint, le accelerazioni, la velocità, i cambi di direzione, la forza massimale, l’elasticità, la mobilità articolare, la forza esplosiva, il temperamento agonistico. Ogni volta, tuttavia, dovetti abdicare a un’emozione, le cui scorte iniziavano a scarseggiare. A parte questo, non avevo più bisogno di nessuno, tanto meno di preparatori atletici, nutrizionisti, coach-mentoring o allenatori che pensavano a rilento. Grazie al software installato nel cervello e ai progressi della robotica, sapevo quale posizione assumere in campo, che lancio effettuare, se fare un sombrero, la trivella, un tunnel, una rovesciata, oppure quando entrare in tackle, con quali probabilità di espulsione, percentuali di successo nei passaggi; a certe condizioni, potevo anticipare le mosse dell’avversario. Una forza della natura, ecco cos’ero. Ormai potevo calciare a oltre 325 chilometri orari. Per non parlare dei gol: in sei mesi ne segnai 37, di cui 11 su punizione. Nessuno aveva mai fatto meglio.

E così si arrivò alla sera del 15 giugno. 

Mancavano pochi minuti all’inizio della finale della Superlega e dagli spalti, gremiti in ogni ordine di posto, arrivavano nitide le grida dei tifosi. La cornice di pubblico era eccezionale: più di duecentomila persone indossavano t-shirt di colore diverso a seconda del settore che occupavano. Un arcobaleno cromatico che confluiva nel verde shock di un campo in erba sintetica ultra-integrata. Non era uno stadio come tanti: racchiuso dentro una sfera di vetro, ruotava intorno alla Terra, mentre un drone spaziale riprendeva ogni cosa vi accadesse all’interno. Le squadre erano al completo. Nessuna defezione per infortunio, malattia o squalifica; entrambi gli allenatori potevano schierare la migliore formazione possibile. Due corazzate pronte a darsi battaglia con ogni mezzo pur di mettere le mani sulla Coppa, che garantiva una vincita plurimilionaria. 

In quell’occasione, per la prima volta, avevo uno spogliatoio tutto mio, con tanto di bagno turco e camerieri. 

Mi stavo osservando allo specchio quando sentii bussare alla porta. 

Non feci in tempo a rispondere e mi trovai davanti un bambino mulatto, con un foglietto in mano. «Posso avere un autografo?» Indossava un paio di scarpe di tela bianca da cui spuntavano i calzini bucati.

«Chi sei? Chi ti ha fatto entrare?» 

«È per il mio fratellino, stravede per te.»

Non potevo perdere tempo, dovevo concentrarmi sulla partita, per cui iniziai a gridare: «Dove sono finiti i bodyguard?» 

Il bambino mi allungò il foglietto e stette lì a guardarmi con insistenza.

Io pure lo squadrai. Mi convinsi che il sistema di sicurezza andava cambiato al più presto.

Fu allora che arrivò l’uomo dalla valigetta. Afferrò il ragazzetto per un braccio e lo allontanò con un calcio nel sedere.

«Ha deciso cosa fare?» La sua voce suonava fredda, quasi indifferente.

Io abbassai lo sguardo.

Lui ripeté la domanda e di fronte al mio silenzio si mise a parlare del nonno, che aveva fatto il magazziniere in un’epoca in cui i calciatori giocavano per la gloria, non per i soldi, e aveva esaudito le richieste più bizzarre: chi voleva il perizoma nero a pois rossi da indossare sotto i pantaloncini, chi il burrocacao da infilare nei tacchetti… Un altro ancora aveva preteso che l’armadietto fosse tappezzato con le copertine degli album dei Pink Floyd. Quelli, però, erano altri tempi. Adesso le cose erano cambiate. Si arricciò i baffi prima di lanciarsi in un sorriso che incuteva timore. «Siamo arrivati all’ultimo passaggio, il decisivo, ma questa volta non servirà nessun intervento, sarà sufficiente una puntura.» Mentre parlava si sfregava le mani palmo contro palmo. 

Ero tentato di completare la trasformazione: per diventare un calciatore degno di questo nome ed entrare nell’Olimpo degli Dei, mi mancava solo la capacità di pensare in più di tre dimensioni e quella di interagire con i computer (interfaccia cervello-macchina). Come contropartita avrei dovuto barattare l’ultima emozione che possedevo: la gioia. In pratica, accettando la proposta avrei azzerato ogni sentimento e a esultare per i miei gol sarebbero stati solo i tifosi. E pensare che mi sentivo già abbastanza solo… L’aridità dei miei sentimenti aveva allontanato tutti i miei amici.

«Capisco la sua indecisione.» Tra le gambe aveva un piccolo marsupio. Lo aprì e tirò fuori una siringa: «Gli effetti saranno immediati: fossi in lei lo farei subito, prima di scendere in campo.» 

«Devo riflettere.» 

«Tra qualche anno cambierà ogni cosa. Lo sport, come lo intendete voi, ormai è obsoleto.» 

«Cosa vuol dire?» 

«Il calcio tradizionale sarà soppiantato dal cyber-football.» I giocatori in carne e ossa sarebbero stati sostituiti dagli umanoidi. «Gli umanoidi non si ammalano, non sono soggetti agli stress della vita sociale, non litigano tra loro, né cercano rivincite o vendette. Non hanno diritto a pause, riposi settimanali, ferie annuali, permessi retribuiti e ad altri stupidi diritti riservati ai lavoratori. Mi sembrano validi motivi, no?» Poi seguitò a elencare altri vantaggi di ordine economico: gli umanoidi avrebbero lavorato gratis, sarebbe stata messa al bando la figura del procuratore sportivo (risparmiando vagonate di milioni) e sarebbero spariti dalla scena i ritiri e le preparazioni estive, altra fonte di spese non indifferenti. Stop a cifre folli per ogni sessione di mercato. Per farla breve, i risparmi sarebbero stati colossali e i profitti delle società sarebbero aumentati a dismisura, rivaleggiando con i brand più potenti a livello planetario.

Io feci un passo indietro: «Tutto vero, certo, però…»

«Va poi considerato un altro aspetto,» e qui fece una breve pausa, «e cioè il profilo tecnico-qualitativo.» I calciatori-umanoidi sarebbero stati dotati di un software (avevano già individuato il nome, Play Soccer+) che garantiva prestazioni sportive di altissimo livello, clonate dai migliori atleti del mondo. I movimenti sarebbero stati identici agli esseri umani, compreso per l’aspetto fisico. L’ingegneria bionica sarebbe stata in grado di realizzare una pelle hi-tech ultra-sensibile, assemblata attraverso cellule fornite di microprocessori collegati, a loro volta, a sensori sparsi su tutta l’epidermide. L’unico tratto impossibile da replicare era il profumo della pelle. Per quello occorreva ancora un po’ di pazienza, ma del resto nessuno aveva mai mostrato troppo interesse all’idea di annusare la pelle di Messi o di Marco Van Basten. Contavano solo i gol e i risultati, traducibili in denaro. 

Il mio mentore si mise a sedere e si stropicciò più volte gli occhi. Dava l’impressione di essere stanco, non solo dal punto di vista fisico: i movimenti delle mani risultavano elettrici.

Tutti quei discorsi mi stavano infastidendo: «Gli umanoidi non esistono!»

Mentre le urla dei tifosi si facevano più forti, convulse, quello iniziò a barcollare. «Gli umanoidi sono già ovunque e gli esseri umani diventeranno una sottospecie.» 

Che fosse anche lui uno di loro?

«Nessuno può sostituirmi. Sono diventato invincibile. Un superuomo.»

«Lei non vuole capire.» Faticava nell’articolare le parole. «Per merito nostro il processo di transizione sarà concluso.» Con la robotizzazione dei calciatori si sarebbe giocato un numero astronomico di partite, anche due al giorno: questo avrebbe garantito l’esplosione del mercato delle pay-tv, dei diritti televisivi, del merchandising, dei proventi degli sponsor, delle schedine on-line, delle scommesse. In sintesi, una pioggia di milioni. 

«Di questo passo svuoterete gli stadi.»

Le labbra dell’uomo si mossero appena: «Si sbaglia, gli stadi saranno sempre sold-out.» La riforma prevedeva che le tribune dello stadio non sarebbero state occupate da veri e propri tifosi, ma dai loro avatar. All’atto della registrazione on-line, che prevedeva un’offerta variegata (conto oro, conto premier, conto business), ogni tifoso avrebbe potuto personalizzare la propria identità digitale fra una gamma di soluzioni possibili: con o senza bandiera, con o senza sciarpa del club, con o senza cappellino, con posto a visibilità limitata, con spuntino o digiuni. I cori sarebbero stati lanciati dal super-avatar, scelto dalla dirigenza delle società coinvolte nell’evento: in questo modo avrebbero controllato che non venissero lanciati slogan razzisti, discriminatori o offensivi. Al momento del gol, gli avatar si sarebbero potuti abbracciare solo con le mani, ma anche scambiarsi una pacca sulle spalle oppure fare la òla. Era invece vietato cambiare di posto. In caso di violazione delle regole, il Codice Etico del Tifoso avrebbe previsto pesantissime sanzioni, dal Daspo dell’utente al divieto di accesso a tutti i siti Internet. 

Ero senza parole. Un calcio senza tifosi era un calcio morto. 

«Il tempo a sua disposizione sta scadendo.»

«È davvero questo il futuro del calcio?»

«Andiamo, non faccia il moralista con me.» Scartò un ago e lo applicò nella siringa, poi prese una fialetta di vetro e ruppe la parte affusolata. 

Cosa dovevo fare? Una volta iniettato il liquido non sarei più potuto tornare indietro. Avrei conquistato la vetta del mondo, ma a quale prezzo? La mia mente comprendeva ogni conseguenza, eppure non provavo nulla, nessuna emozione, nessuna scintilla. Non amavo, non odiavo, non avevo nessun rimpianto, nessuna gelosia. Niente. Come se quelle emozioni non fossero mai esistite dentro di me. Forse ero sempre stato così e non l’avevo mai saputo. Insomma, era inutile farsi certe domande. Girai la testa per lanciare un’ultima occhiata in direzione del tunnel che portava in campo.

«Ci pensi bene. Perfezione o sentimento? Cosa sceglie?»

*** *** ***

Fotografia a corredo di Michela Bin, per gentile concessione dell’autrice. Nata a Trieste nel 1972, Michela Bin è laureata in archeologia medievale presso l’Università di Trieste; appassionata di fotografia da sempre, ha approfondito le sue conoscenze, tra gli altri, con Graziano Perotti.


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