Reazioni allergiche: le forme della letteratura

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L’articolo riporta alcuni brani del primo capitolo del saggio “L’indicibile nella narrativa contemporanea” di Simone Cerlini e Fabio Orrico pubblicato nel 2013. Il saggio è valido tutt’ora, il che significa che il panorama editoriale e letterario non è cambiato molto nell’ultimo decennio. La fronda degli Imperdonabili riprende il filo di una critica all’esistente che ha radici lontane.

Pare che in questi ultimi anni la letteratura sia tornata di gran moda. O almeno che se ne faccia, di nuovo, un gran parlare, a partire dal fortunato memorandum “New Italian Epic” del collettivo Wu Ming, al “New Italian Realism” di Spinazzola, passando attraverso il movimento, se così lo si può chiamare dei TQ, gli scrittori trenta/quarantenni e arrivando agli epitaffi del libro e dell’industria editoriale. Può anche darsi che sia un arrabattarsi di nicchia, che non interessa i più, ma ci sono in questo fenomeno dei segnali importanti che potrebbero dirci qualcosa sulla nostra epoca. Lo spettacolo a cui si assiste sembra a prima vista una ribellione degli autori al sistema dell’industria del libro che collassa, ma a ben vedere si tratta invece di una autoanalisi del sistema stesso che non si riconosce più nel ruolo che si è dato, di essere essenzialmente industria di intrattenimento. Questa reazione, questo scatenamento di anticorpi, che trae vigore anche dalla crisi economica e dell’editoria, segnala innanzitutto una irrequietezza e una insofferenza alla sclerotizzazione delle forme narrative.

Non si tratta di ragionare sulla nascita di nuovi generi o categorie, quanto invece di porre nuovamente l’attenzione sulla funzione del romanzo, e se vogliamo, della letteratura e dell’arte. Ciò che si vuole sottolineare dunque non è tanto che stia accadendo qualcosa di nuovo e genetico nel panorama italiano, quanto invece che la letteratura stia producendo i propri anticorpi ad una tendenza che la stava, e la sta, appiattendo su forme sclerotizzate perché concepite in funzione di una lettura di intrattenimento1.

Gli autori, i responsabili editoriali, e soprattutto i lettori sono immersi in un liquido amniotico fatto di innumerevoli sollecitazioni cognitive, esplose con l’era delle tecnologie digitali della comunicazione. Con l’era del web, dello streaming, dei social network e dei blog, molti osservatori sottolineano come non sia più possibile parlare di massa di consumatori, uniformata nelle aspettative e nelle scelte, tipica della società industriale. Tale esplosione del mercato degli utenti, in un sistema in cui è premiata la differenziazione, ha probabilmente acuito l’insofferenza verso un’offerta sempre identica a se stessa, che caratterizza l’industria che produce musica, libri, film, fumetti, videogame. Ha reso evidente, anche attraverso i risultati di vendita, l’insufficienza e la miopia di queste scelte. Ha dato un coraggio nuovo a chi cerca qualcosa di diverso e a chi qualcosa di diverso vuole offrire.

Prima dell’era digitale l’industria culturale di massa seguiva canali di distribuzione relativamente rigidi, caratterizzati da pochissime televisioni generaliste, e dalla capacità del cinema, in particolare del cinema americano, di plasmare l’immaginario e le aspettative cognitive. In questo contesto la letteratura si rivolgeva ad un pubblico ristretto, tendenzialmente colto e benestante, formato da insegnanti, professionisti, funzionari, e si permetteva una libertà data in definitiva dall’irrilevanza economica dell’industria del libro, che si concepiva in un ruolo culturale, molto più che imprenditoriale.

Negli ultimi trenta anni l’industria dell’intrattenimento esce dalla propria fase pionieristica, caratterizzata da estrema libertà formale e grande apertura ai talenti, industrializzando i processi, dandosi obiettivi di mercato e imprenditoriali: l’offerta si differenzia, si affermano professioni specializzate nella scrittura (dal romanzo alle sceneggiature per gli spot pubblicitari), proliferano le scuole di scrittura, le forme si appiattiscono in standard efficacissimi nel soddisfare la richiesta di “intrattenimento” del pubblico “medio”. Questo fenomeno di “professionalizzazione dell’intrattenimento” coinvolge certamente prima di tutto il cinema e la televisione, ed in ultimo, l’editoria. La letteratura oggi è in ultima analisi una “produzione di contenuti” nel processo più generale dell’industria dell’intrattenimento. Non c’è differenza funzionale tra libro di narrativa, sit com, cinema, videogame, fumetto. Soprattutto, non c’è differenza di forma.

Sicuramente una tappa importante verso la sclerotizzazione delle forme nella narrazione è la pubblicazione dei due testi essenziali per la tecnica di sceneggiatura: “La sceneggiatura” di Syd Field pubblicato in Italia nel 1991 e “Il viaggio dell’eroe” di Christopher Vogler, del 1999, a cui è opportuno aggiungere “Story” di Robert Mc Kee, e l’attività formativa e seminariale di quest’ultimo nel mondo. I primi due testi rappresentano oggi un vero e proprio ricettario per il cinema e la letteratura (e non solo). Sulla base di alcuni film di successo Field ipostatizza la forma “narrativa” maggiormente funzionale per una fruizione immediata e soddisfacente per il pubblico: il cosiddetto “paradigma di Field”. Il paradigma identifica tra le infinite forme possibili della storia una forma standard (inizio – svolgimento – conclusione), in più identificando gli strumenti chiave per renderla efficace (il plot point: il momento scatenante degli eventi, il secondo plot point, o punto di non ritorno, in cui l’eroe vicino alla meta sembra perderla definitivamente, le pinze: elementi apparentemente ininfluenti che saranno cruciali successivamente, ecc). Il paradigma prevede che la narrazione sia focalizzata su un protagonista, il quale esprime un obiettivo fisico (il cosiddetto “desire”) e un bisogno interiore (il cosiddetto “need”), e che l’elemento portante sia un conflitto. Vogler, pur accettando la struttura di Field, ne specifica i diversi momenti interni (dopo una analisi di più di seimila sceneggiature). Facendo appello alla struttura dei miti di tutte le epoche, identifica i personaggi chiave, o archetipi delle storie. Field e Vogler definiscono in poche parole la struttura base per costruire “buoni film”, ma vengono anche utilizzati per valutare e scegliere un “buon romanzo”, diventando di fatto manuali per autori di narrazioni, siano esse per il cinema, la serie tv, il fumetto o il romanzo. L’affermarsi delle strutture di Field e Vogler in questi ultimi venti anni andrebbe motivata e argomentata, ad esempio verificando l’ortodossia della struttura dei best seller italiani e stranieri degli ultimi venti anni. L’impressione è che tale verifica si riveli molto più semplice di quanto ci si possa aspettare.

Se dunque le strutture di Field e di Vogler rappresentano delle vere e proprie “scorciatoie per il successo”, esse diventano di fatto uno strumento di appiattimento dell’offerta di narrazione, agendo come filtro nelle mani di alcuni responsabili editoriali meno coraggiosi di altri e come autocensura nelle mani degli autori. Tale appiattimento ha prodotto negli anni un circolo vizioso, creando un “flic dans la tête”, in quanto ha modificato e uniformato l’ambiente di storie in cui tutti quanti siamo immersi. L’esplosione di movimento sulla nuova letteratura italiana, così come la stanchezza dei lettori e la crisi editoriale, sono anche una reazione allergica all’imperialismo delle forme della narrazione di intrattenimento. Tale reazione allergica potrebbe avere in qualche modo a che fare con l’esplosione delle forme di espressione dovuta all’affermarsi del web 2.0, dei social network, dei blog, a partire dai primi anni di questo nuovo millennio e con la crisi apparentemente irrimediabile dell’economia della letteratura.

La verità su cui poggia questa produzione di anticorpi è però concreta: nel panorama letterario di oggi emergono autori che con coraggio hanno sfidato le mode correnti, proponendo esperienze narrative (nella tradizionale forma romanzo, racconti od oggetti letterari non identificati, nella definizione di Wu Ming) che portano con sé una fruizione non assimilabile o non riducibile semplicemente all’intrattenimento e al divertissement. Queste esperienze rischiano di rimanere ai margini, ed essere relegate dentro a circoli di appassionati lettori che scavano le librerie come miniere, alla ricerca di sorprese.

Eppure la storia della letteratura ci dice che il romanzo, ma forse ogni forma letteraria, dalla novella alla poesia al saggio, non ha di per sé una forma. La forma romanzo è qualcosa di scorticato e esposto ai venti del suo tempo, duttile e plasmabile, è l’organismo più contaminabile che si possa immaginare. Anzi, maggiormente si dimostra sensibile alla radioattività di altre influenze (non necessariamente artistiche) e più ne trae vigore, forza, più si afferma nella sua unicità di corpo narrativo. A dimostrazione di questo ci sono le grandi cattedrali romanzesche che, probabilmente, se finissero oggi sulla scrivania di qualche “imprenditore editoriale”, o “professionista dell’intrattenimento” ne causerebbero lo sconcerto e, addirittura la disapprovazione. Perché tutte quelle digressioni nel Don Chisciotte? Perché tutte quelle citazioni all’inizio di Moby Dick? Perché pagine e pagine per parlarci di un fiore di biancospino ne La strada di Swann? Perché quell’estenuante, interminabile monologo nell’osteria a un terzo dalla fine de La storia? E si potrebbe andare avanti per pagine e pagine. I classici non si toccano per carità, ma ha ragione il critico Carla Benedetti, quando nel suo bellissimo saggio Disumane lettere (Laterza, 2011) scrive: “Non è così facile accorgersi di ciò che avviene nel presente. Penso spesso a quell’anziano signore triestino che agli inizi del secolo scorso aveva pubblicato a proprie spese dei capolavori, mentre c’era chi lamentava l’assenza del grande romanzo in Italia. I letterati suoi connazionali dovettero aspettare l’arrivo di un occhio straniero, quello di James Joyce, per accorgersi che esisteva un romanzo come La coscienza di Zeno di Italo Svevo”.

1 La polemica sulla letteratura “di intrattenimento” o “popolare”, capace di appiattire la ricezione delle opere, ma dotata di un suo valore intrinseco, sembra una costante nella storia della critica. Si pensi al Balzac critico della Revue Parisienne, ai movimenti dell’Avanguardia e della Neoavanguardia, alle Lezioni Americane di Italo Calvino.

Fabio Orrico ha scritto due raccolte di poesie e alcuni romanzi, l’ultimo dei quali è Giorni feriali (Italic, 2019)

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Fotografia a corredo di Michela Bin, per gentile concessione dell’autrice. Nata a Trieste nel 1972, Michela Bin è laureata in archeologia medievale presso l’Università di Trieste; appassionata di fotografia da sempre, ha approfondito le sue conoscenze, tra gli altri, con Graziano Perotti.


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