Skioffi, Red Ronnie e Bruzzone: bullismo e articidio in Prime Time

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Mi hanno segnalato un caso di bullismo mediatico sensazionale: Skioffi a Non è l’arena.

Ho visto gli spezzoni del suo confronto con Roberta Bruzzone (giudice di Ballando con le stelle con l’hobby della criminologia) e Red Ronnie (fondamentalista vegano con il pallino della musica) prima di avere la possibilità di ascoltare le sue canzoni, ed è stato uno shock.

Skioffi appare un ragazzo timido, impacciato, il volto scosso da tic nervosi e un viso che mi è parso naturalmente simpatico, qualcosa tra Alessandro Paci e Massimo Troisi.

La Bruzzone ha stuprato i fondamentali di ogni ricerca creativa commentando in questo modo la riuscita immedesimazione di Skioffi nella mente di un femminicida: «Il testo è terrificante…» «è assolutamente verosimile…» «è quello che accade davvero.»

Be’, per un’artista queste sono altrettante medaglie, no?

No.

L’arguta criminologa ha fiutato una pista: lei ha avuto a che fare per vent’anni con omicidi, e Skioffi è malato, è inquietante, ne capisce troppo di quelle dinamiche; il pubblico applaude, io invece sono perplesso e mi chiedo: dove vuole arrivare questa esperta di referti medici? Skioffi è un assassino, o un aspirante tale? Perché continua a interromperlo? Se nasce psicologa, o criminologa, è persona che studia la complessità della mente umana, come può suggerire che vi sia una coincidenza tra persona/autore e personaggio narrante?

O forse è solo un linciaggio mediatico, come hanno fatto Salvini e Belpietro con Bello Figo?

Sì, forse ho frainteso, nessuno pensa che Skioffi sia malato.

Eppure, il grande Red mi toglie ogni dubbio, e comunica al musicista che deve andare da uno psicologo. 

Iniziano a tremarmi le mani, mi sta persino un po’ sul cazzo Skioffi a questo punto, quando la Bruzzone gli getta un salvagente – finto – e lui ci casca.

«Hai raccontato questa storia di violenza, immagino per censurarla, vero?»

«Certo.»

«Eppure tu sei lo stesso che dava delle handicappate alle giornaliste di Lettera Donna

No, Skioffi, chiunque tu sia, diglielo che lasci la censura ai normocorpi come lei!

E infatti la moralizzatrice dei costumi artistici, ottenuta la sua vittoria, non lo lascia spiegare: Giletti sfodera il colpo segreto dell’applauso crescente, Red Ronnie gli dice che è confuso, come nei thriller dove c’è la congiura per far credere matto il protagonista, e Skioffi è definitivamente morto.

Bel pezzo di televisione. Frescone. Ipocrita. Ignorante.

Eppure, il modo per uscire dalla trappola c’era, e consisteva nel dire la verità: Skioffi non ha raccontato quella storia per censurarla, allo stesso modo nel quale io non ho scritto un romanzo su un femminicida per condannare il femminicidio.

L’arte non è edificante.

L’arte non è educativa.

L’arte vera non è a tema, non manda un messaggio e non si rivolge ai bambini.

Per questo l’arte in Italia è tornata alla preistoria.

Come diavolo lo vuoi raccontare un femminicidio? Devi renderlo volutamente inautentico? Bisogna dipingere l’assassino come il male assoluto, da esorcizzare col fuoco? In definitiva, rifiutando ogni immedesimazione? In effetti, nei piani alti della televisione italiana gli autori già vivono in un regime di aperta censura, visto che la dittatura del politicamente lottizzato, prima che corretto, oggi impone di costruire, per esempio nelle fiction nostrane, situazioni stereotipate con personaggi funzionalizzati, rappresentazioni edulcorate e finali consolatori: il cattivo è tale fino in fondo, fa qualcosa di orrendo che non vediamo, verrà incastrato e finirà in galera. Loro non la chiamano censura, mai sia, bensì «tutela del pubblico».

Skioffi l’aveva pur scritto da qualche parte: perché io e non Tarantino, con quello che fa vedere nei suoi film?

Te lo spiego io, Skioffi: Tarantino non capisce granché di quelle dinamiche umane e nemmeno vuole fare lo sforzo; la sua violenza non fa paura, è una tamarrata fine a sé stessa, roba divertente da inserire nella sua tipica revenge exploitation.

La tua, la nostra, fa paura perché cerca di scavare a fondo nel rapporto tra violenza e sacro

Inoltre la tua musica non è mainstream, non è il bel canto all’italiana – a proposito, cosa ci facevi da Amici? Così mi rovini la narrativa! – quindi se ti paragoni a Tarantino ti danno pure dell’arrogante, giudicano la tua musica, fraintendono perché non hanno il coraggio di affrontarti.

Ammaniti ha vinto lo Strega con “Come Dio comanda”, la favola del Gigante Buono che diventa un Mostro. Nera, ma a suo modo edificante, capace di rassicurare. Questo è il mainstream: la favola.

Noi la dobbiamo superare, questa pantomima della favola, perché la favola non esaurisce l’intero campo della narrazione.

Un avviso a tutte le Bruzzoni del mondo: noialtri realisti non usiamo la scusa della condanna per scrivere nefandezze, noi non condanniamo nullao meglio, condanniamo voi, questo sì, e vi detestiamo in quanto ipocriti –, abbiamo scelto un’altra strada, che è quella della ricerca, della fascinazione, e quella del male di solito è più efficace. Sapete perché, carissimi? Perché il male è una pietra d’inciampo. E ci caschiamo tutti, prima o poi:

Fabri Fibra: «Se la mia ragazza fa la troia in palestra, appena torna a casa io le spacco la testa»; «Problemi di spazio? Ma dico hai mai provato ha lanciare tuo figlio dal terrazzo?» (Cuore di Latta, 2006)

Guns ‘n’ roses: «La amavo, ma ho dovuto ucciderla, si lamentava troppo, mi faceva uscire di testa, e sono più contento così» (I used to love her, 1988), «Immigrati e froci non hanno senso per me, vengono qui e fan quello che vogliono, come iniziare una specie di mini-Iran o diffondere malattie, e parlano in queste lingue che per me son tutte Greco» (One in a million, 1988), «Vai via, vai via cagna, giù nella fogna, a morire nel canale, è tempo di bruciare, bruciare la strega» (Back off bitch, 1991)

Vasco Rossi: «Ho perso un’altra occasione buona stasera… È andata a casa con il negro, la troia» (Colpa d’Alfredo, 1980), «Appena ti prendo da sola, ti taglio la gola… ti taglio la gola!» (Ti taglio la gola, 1985)

Un tempo ci si vergognava nel fare i commenti che oggi utilizzate per ergervi a censori, un tempo si aveva il coraggio di ammettere che «questa musica moderna non la capisco»; ecco, non ci capite niente, e non vi servirà appellarvi al pluralismo per parlare con noi: in quanto censori della libera espressione artistica, avete perso il diritto di essere ascoltati.

*** *** ***

Fotografia a corredo di Michela Bin, per gentile concessione dell’autrice. Nata a Trieste nel 1972, Michela Bin è laureata in archeologia medievale presso l’Università di Trieste; appassionata di fotografia da sempre, ha approfondito le sue conoscenze, tra gli altri, con Graziano Perotti.


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