Junior Cally e le canzoni di morte a Sanremo

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Mentre leggo della polemica su Junior Cally a Sanremo mi trovo da solo nel mio monolocale, in piedi davanti alla finestra: sono di nuovo le tre di notte, è di nuovo insonnia. Questo loft ha finestre troppo alte, l’avevo notato subito, e la mia è una delle strade preferite dagli ubriachi che rientrano dalla movida.

Ho una fila di lampioni all’altezza della fronte, invadono l’appartamento di una melassa gialla quasi tangibile, lo rendono una fornace visiva, e chiudere le tende è solo peggio: l’impressione è quella di un magma tenuto sotto pressione, filtra dagli spiragli e diventa sempre più soffocante.

Gli occhi in fiamme, ho letto sullo schermo del telefono un paio di suoi testi; gli articoli che descrivono la polemica riportano tutti lo stesso spezzone di una sola canzone, quello sulla ragazza che ingoia, e la questione non mi convince; d’altronde, a furia di decontestualizzare, pure Max Pezzali diventa Marilyn Manson: “Se vedi una che in meno di un mese esce con due diversi è una troia, è una troia.” L’ha scritto lui, mica Ozzy Osbourne.

Il resto della produzione artistica di Junior Cally è, be’, rap italiano: dichiarazioni d’amore, di odio, gente che si chiama frate, poca vera introspezione ma straordinaria capacità di mettere una parola dietro l’altra; il tipo di musica mi ha sempre fatto pensare ai riti di accoppiamento dei nostri antenati cavernicoli, forse questo spiega il successo che i rapper riscuotono presso il pubblico femminile, e qui Google mi dà ragione: Junior è fidanzato con un’ex tronista di Uomini e Donne, l’ha conquistata su Instagram prima rendendosi misterioso con una maschera antigas e poi bilanciando con un tenero commento sul libro che lei leggeva.

È un bel ragazzo, Junior, con quegli occhi sofferenti, di certo non cattivi; no, Junior non farebbe mai del male a una donna, ne sono sicuro: lui non è come Giacomo

È successo una decina di anni fa, e pensarci è stato automatico.

Eravamo in vacanza a Juan-les-pins.

Non avevamo alcuna speranza, io e Giacomo, la Costa Azzurra d’estate è una terra spietata, il posto perfetto per essere fatti a pezzi, soprattutto se si hanno trent’anni suonati e nessuna attitudine sociale.

I buttafuori dei locali erano tutti uguali: bellissimi, giganteschi, quasi sempre neri. Tenevano la gente in fila anche quando il posto era mezzo vuoto, per far vedere che c’era gente, per far vedere che c’era figa.

Non ci avrebbero mai fatti entrare senza ragazze, e se ne avessimo avute avrebbero fatto entrare solo loro: per quelli come noi l’unica possibilità era pagare centocinquanta euro per una bottiglia di vodka e sedersi all’unico tavolo del privé che sarebbe rimasto deserto per tutta la notte.

Le strade del centro, sempre chiuse al traffico la sera, erano un groviglio di gambe abbronzate, paillettes e prendisole, risate sguaiate e tacchi a spillo: a un’occhiata distratta sembrava di essere gli unici individui brutti al mondo, l’effetto cheerleader era schiacciante.

La vacanza era un inferno, una sofferenza senza fine: troppo bassi, troppo grassi, troppo insignificanti, praticamente vergini, cosa ci facevamo lì in mezzo? Dopo le prime due serate avevamo smesso persino di giocare a carte dopo cena per aspettare l’ora dell’umiliazione della passerella in centro: Giacomo aveva sempre qualcosa da guardare su quel maledetto telefono, persino quando ce ne andavamo a dormire dopo cinque cocktail potevo vedere la luce del display e la sua faccia blu, l’espressione famelica, le granate a grappolo dei capillari sui globi oculari sempre sul punto di detonare in una reazione a catena letale. 

Credo si masturbasse spesso, la convivenza forzata in quei venti metri quadri non serviva a fermarlo.

Ognuno di noi aspettava che l’altro cedesse e proponesse di chiuderci in appartamento, o, ancora meglio, di tornarcene a Milano; lì, per lo meno, le ragazze ci evitavano con un minimo di riguardo, ma temevo che una resa del genere ci avrebbe distrutto nell’intimo, affrontarla in quelle condizioni era impensabile.

Non riuscivamo nemmeno più a parlare tra di noi, era come essere nudi davanti a tutti, i cazzi intirizziti e i corpi enfiati, respinti in quanto inaccettabili per prima cosa ai nostri stessi occhi.

La sera prima di tornare a casa decidemmo comunque di andare a ballare: io avevo pensato di fratturarmi un dito con una bottiglia di Corona, come si faceva durante la seconda guerra mondiale per evitare la chiamata alle armi, poi avevo pensato che l’ultima sera di ogni vacanza di solito si pervade di quella dolcezza autoindulgente da dopopartita, si parte con le intenzioni di spaccare tutto e si finisce per considerare che il giorno dopo ci sarebbe stata una levataccia.

Invece finimmo al Milk, il peggio del peggio: scuro, sporco, soffitto basso e cocktail carichi di superalcolici da discount; un covo di tagliagole.

Giacomo si incaricò della conversazione col buttafuori, che aveva smesso di parlare con una stangona bruna coi capezzoli che si intravedevano attraverso la maglia a rete e gli aveva lanciato uno sguardo glaciale: sembrava volerlo fare a pezzi.

Il mio amico, sudato come a un esame, continuava a deglutire, chiudere gli occhi e fare smorfie agghiaccianti che dovevano essere sorrisi di scusa per il proprio francese stentato; alla fine era riuscito a spuntare due ingressi a centoventi euro. Senza tavolo.

Mi aveva spiegato l’aumento prezzi con un sorriso patetico, mi chiedeva se per me andasse bene, ma che dovevamo decidere in fretta, Jerome era disposto a farci entrare solo perché ci aveva già visti in giro.

Provava ad atteggiarsi a pr, Giacomo; mentre mi parlava inarcava le spalle nel tentativo di coprire un cartello che stabiliva l’ingresso a venti euro a persona. Quella sera aveva scelto un completo di lino ocra con cravatta in tinta, un mix tra Lawrence d’Arabia e Dick Tracy: la camicia a collo inglese faceva risaltare a dismisura i suoi seni a punta; venni investito da un’ondata di affetto spaventoso, il suo era un vero e proprio martirio.

Avrei voluto dirgli che un giorno sarebbe andato tutto a posto, che una situazione di tale disagio non poteva durare per sempre, era del tutto inadatta alla natura umana: in sostanza, ero sul punto di mentirgli spudoratamente, quindi decisi di stare zitto e mi offrii di pagare anche per lui.

Ai tempi guadagnavo intorno ai tremila euro al mese, senza contare i bonus, nella piramide economica ero senz’altro parte di un’elite, ma esisteva un’altra gerarchia, più ingiusta, classista e statica, che mi voleva relegato tra i paria; quanto doveva essere pagato quello zulù all’ingresso durante l’unica stagione dell’anno durante la quale i suoi servigi erano richiesti? Mille? Duemila euro al mese?

Avrei dato tutto quel che avevo per essere lui.

Il locale era invaso da una luce blu soffusa; le starlight che le pr distribuivano all’entrata creavano giochi di luce rosa e verdi che rendevano le ragazze creature imperscrutabili, pronte a tutto.

Giacomo mi guidava tra i corpi sudati, cellulare alla mano e l’espressione determinata di chi è venuto in quel posto per un motivo preciso.

Dopo essere rimasti uno di fronte all’altro in mezzo alla pista a fissarci le punte dei piedi – la gente doveva pensare che ci fosse caduto per terra qualcosa – trovammo il coraggio di scambiarci uno sguardo sconsolato e dirigerci verso un divanetto che si era appena reso libero.

Avevo una cassa a mezzo metro dalle mie gambe, la musica elettronica che ne usciva mi trasmetteva strani massaggi che mi facevano vibrare ginocchia, bacino e osso sacro.

Davanti a noi sfilavano gruppi di tre, quattro, cinque adolescenti per volta, una più svestita dell’altra. Ridevano, giravano su se stesse, si baciavano come nei video degli anni novanta.

Il volto di Giacomo era terreo, annichilito, inerme davanti a un nemico che lo aveva distrutto semplicemente palesandosi, ma riuscivo a leggere nei suoi occhi il lampo dell’eccitazione, la sindrome di Stoccolma applicata al desiderio. In un certo senso era messo meglio del sottoscritto: negli anni il mio uccello aveva sviluppato una sorta di istintivo buon senso, ed evitava di agitarsi per situazioni che già sapeva non avrebbero portato da nessuna parte. 

Era una forma di esistenzialismo genitale che aveva sostituito ogni rischio di delusione con una depressione costante e consapevole; purtroppo, questo mi aveva allontanato in modo irreversibile dal resto dei miei simili.

Mentre ne prendevo atto una volta in più, tre ragazze si fermarono a un paio di metri dal nostro accampamento: due di loro avevano qualcosa di mediorientale, carnagione olivastra e silhouette che parevano straordinariamente elastiche, la terza poteva essere scandinava; l’effetto fumo delle luci le inghiottiva di continuo, ma ogni volta che le strobo compivano un giro completo ci offrivano stralci scomposti dei loro corpi slanciati.

Confabulavano senza staccare la bocca dalle cannucce fosforescenti che spuntavano da enormi cocktail colorati e si davano di gomito ridendo, erano sbronze fradice ed era evidente che cercassero guai.

La più bruttina di loro, che probabilmente si guadagnava l’appartenenza al gruppo grazie alla sua proattività, si fece avanti, prese Giacomo per il colletto della camicia inglese e lo tirò in mezzo alla pista.

Decisi subito che se una delle sue amiche avesse provato a fare lo stesso con me sarei scappato all’esterno del locale, avevo già individuato una traiettoria che portava verso il patio e che quei due demoni non avrebbero avuto il tempo di intercettare.

Con sollievo – e, bisogna dirlo, una fugace fitta di malinconia – mi resi conto che le tre stronze ce l’avevano solo con Giacomo: il suo completo ocra da Casablanca, in effetti, lo assimilava all’immaginario del “tipo fuori di testa che becchi in discoteca”. Nel giro di due minuti il mio amico aveva una corona di starlight che gli addobbava la fronte, la camicia sbottonata e un’erezione drammatica accentuata dal lino leggerissimo dei pantaloni.

Le tre amiche avevano deciso di farne scempio, una si era legata al collo la sua cravatta, l’altra ne usava la cintura per prendergli il collo e stampargli macchie di rossetto sulle guance e sulla fronte, la terza l’aveva preso per un palo da pole dance e gli strusciava il culo addosso. La pancia bianca di Giacomo spuntava gonfia e ributtante da sopra i pantaloni: come faceva a pensare che qualcuna di loro avesse davvero l’intenzione di scoparlo? 

In effetti, il mio amico aveva un’espressione esterrefatta, ma intravedevo una sorta di gioia commovente che combatteva con il panico della bestia braccata: le stronzette avevano trovato la preda ideale.

Il gioco finì, come era ovvio, al primo tentativo di Giacomo di restituire una piccola percentuale delle molestie ricevute: prese la bionda che gli stava twerkando addosso per i fianchi, la girò verso di sé e la strinse in un gesto di romantica fierezza.

La ragazza strabuzzò gli occhi e si divincolò dalla sua presa, mentre la bruttina capobranco si strappò dal collo la cravatta e gliela lanciò in faccia gridando.

La terza tipa, una mulatta mozzafiato da mille e una notte, che solo dieci secondi prima aveva la lingua contro il suo collo, gli indicò l’inguine con ferocia disumana. Già, la maledetta era riuscita a farlo venire nelle mutande.

Nel giro di pochi secondi intorno al mio amico si creò il vuoto: un paio di brutti ceffi, amici di quelle creature malefiche, si fecero sotto piuttosto aggressivi, mentre le streghe saltellavano urlando loro nelle orecchie tutte le nefandezze delle quali Giacomo si era macchiato.

Le luci nella stanza avevano virato sul rosso, e le strobo dipingevano strani raggi di sole sull’ocra della disgraziata tunica del mio amico. Per lui, il tormento pareva all’apice: il suo volto era rivolto al soffitto, stentoreo, le braccia aperte, i polsi offerti agli aguzzini.

La macchia di sperma sui suoi pantaloni era più visibile che mai.

Qualche ora dopo mi trovavo seduto su una panchina che costeggiava il lungomare.

Non ero intervenuto, lasciarlo da solo mi era parso il gesto più misericordioso che potessi compiere: d’altronde, una volta tornati a casa sarei stato l’unico trait d’union tra lui e quella vicenda; meno vedevo, meglio era per tutti.

Le prime luci dell’alba screziavano appena l’oscurità, il gioco di colori era tenue, quasi impercettibile; mi restavano una decina di sigarette.

Non c’era anima viva sulla spiaggia, solo bottiglie vuote e qualche preservativo, per avere un caffé avrei dovuto aspettare almeno un’altro paio d’ore.

Fu in quel momento che vidi una coppia camminare sulla spiaggia, proveniente dal centreville: restai in attesa mentre mi si avvicinavano, i piedi nudi che si trascinavano sulla spiaggia irregolare.

Ne giro di cinque minuti mi furono a tiro, ora li vedevo bene, illuminati dalla luce insistita dell’alba che finalmente faceva breccia nella mia ultima notte in Costa Azzurra, e li riconoscevo: lei era la ragazza creola che aveva dileggiato le eiaculazioni di Giacomo, lui uno dei due marcantoni che lo avevano umiliato, ma qualcosa in loro era cambiato.

Il volto di lei era languido, meraviglioso, le labbra carnose del suo compagno piegate in un sorriso malinconico e bonario: lui le cingeva la vita in un gesto di protezione e supporto, lei, con un giubbotto di jeans sulle spalle, sembrava una vestale.

Mi chiesi se non fosse tutto perfetto così, senza di noi, se in fin dei conti il ruolo di gente come me e Giacomo non fosse altro che quello di cedere il passo a quel prodigio della natura: che diritto avevamo di guastare quella bellezza col nostro sudiciume esistenziale? Per quanto esistessero giustificazioni per il nostro abbrutimento morale, come potevamo pretendere un posto a quel banchetto?

I due ragazzi mi avevano sorpassato senza degnarmi di uno sguardo, diretti verso il mare: in prossimità del bagnasciuga si sedettero nella sabbia, incuranti delle onde che gli passavano sotto le natiche, e iniziarono a spogliarsi.

Accesi una Marlboro.

Ero così preso da quell’apparizione che mi accorsi di Giacomo quando era già praticamente alle loro spalle.

Procedeva ingobbito, brandiva una mazza da golf trovata chissà dove, il completo fradicio e lercio: quante dovevano avergliene fatte passare…

Nonostante la distanza che ci separava mi parve di sentire il suo respiro affannoso, e il risolino isterico che annuncia il sonno della ragione.

Il ragazzo era chino sulla mulatta, aveva con ogni probabilità già iniziato a penetrarla, tutto procedeva con estrema dolcezza, poi la mazza da golf gli sfondò il cranio con un tonfo pastoso.

Il suo corpo nerboruto si schiacciò su quello della sua partner in un guazzabuglio di spasmi muscolari e schizzi di sangue; la ragazza dimostrò una prontezza di riflessi inaspettata, si levò di dosso quel sudario di carne maciullata e si spinse all’indietro coi talloni lanciando un unico urlo di sorpresa: poi, saggiamente, risparmiò il fiato per scappare.

Alle mie spalle, una finestra si aprì. Troppo poco, troppo tardi.

La ragazza intanto correva a piedi nudi lungo il bagnasciuga, dove la sabbia era più compatta; era sorprendentemente veloce, per un attimo mi chiesi se ce l’avrebbe fatta, ma inciampò nei propri passi dopo una manciata di metri, giocata dall’adrenalina.

Aguzzai lo sguardo, cercai di scorgere in quel viso meraviglioso e infantile tracce dell’arpia che aveva fatto a pezzi la dignità del mio amico: era davvero un mistero.

Giacomo rallentò, le si fece incontro con calma: la ragazza avrebbe probabilmente avuto il tempo di rimettersi a correre, ma non lo fece; esistono automatismi di resa difficili da spiegare.

A quel punto, anche Giacomo doveva essersi reso conto che l’incantesimo era finito; come mai invece le calò la mazza sulla schiena una, cinque, dieci volte?

Non ne ho idea, ma lo fece, poi si si levò di dosso quei vestiti ridicoli ed entrò in acqua.

È ora di chiudere le tende, sono le due e mezza. Come ho detto, tra poco la gente inizierà a uscire dalle discoteche, passarmi sotto casa, darmi cattivi pensieri.

Dopo aver visto quella coppia di ragazzi camminare sulla spiaggia di Juan-les-pins all’alba non ho più cambiato idea: la bellezza ha un sacrosanto diritto di esistere in questo mondo, perfino di comandarlo, mille volte più di quanto ne abbiano diritto quelli come me e Giacomo, costretti a scacciare la violenza con la violenza.

Eppure, non abbiamo altro modo di essere.

Eppure, esistiamo.

*** *** ***

Fotografia a corredo di Michela Bin, per gentile concessione dell’autrice. Nata a Trieste nel 1972, Michela Bin è laureata in archeologia medievale presso l’Università di Trieste; appassionata di fotografia da sempre, ha approfondito le sue conoscenze, tra gli altri, con Graziano Perotti.



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