Conor McGregor e il suo doppio

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Devo ammetterlo. Fino a qualche giorno fa il suo nome non mi diceva niente: non sapevo chi fosse, né cosa facesse nella vita. E pensare che per anni ho masticato anch’io paradenti e grumi di sangue, imparando a sfidare gli avversari e a misurarmi con i miei limiti. Ogni volta, prima di salire sul ring, venivo assalito da un’eccitazione oscura: un misto di paura e desiderio. Una parte di me voleva combattere, l’altra frenava. Oscillavo tra coraggio e vigliaccheria, con la tensione che aumentava mentre passavo in mezzo al pubblico. Poi, appena mettevo piede sul quadrato, tutto questo svaniva. Da quel momento in poi non esisteva altro che la sagoma del mio nemico. Io contro di lui. O meglio: i miei muscoli contro i suoi, le mie ore di allenamento contro le sue, la mia rabbia contro la sua. E guai a pensare che bastasse attaccare per vincere. Occorreva coprirsi, schivare i colpi, tenere alta la guardia. E soprattutto attivare il cervello. La forza fisica da sola non bastava. La mia specialità era la savate (boxe francese), una disciplina poco popolare in Italia. Insieme a me si allenava Corrado [omissis], un ragazzo con la grinta giusta, che non mollava mai. Una volta, durante un incontro di boxe, prese un diretto così forte da stramazzare al tappeto. Lo davamo per spacciato, invece, scattò in piedi, come sollevato da un’entità invisibile. Ricordo ancora lo sguardo allibito del suo avversario. 

Sabato scorso stavo pensando al mio compagno di allenamento quando sentii annunciare alla tv il ritorno alle gare di The Notorious. Ne parlavano con tale entusiasmo che mi lasciai contagiare e finii per scoprire che The Notorious era il soprannome di Conor McGregor, un fighter irlandese con una tigre tatuata sull’addome e cresciuto nella periferia a sud di Dublino. La tigre è sempre stato un simbolo ricorrente tra i guerrieri del ring, forse perché è un animale coraggioso e veloce: la canzone di preferita di Corrado era Eye Of The Tiger. L’ascoltava sempre, soprattutto per caricarsi prima del match. Se non ho capito male, McGregor si era ritirato dalle gare a marzo del 2019, ma per anni era stato il Re delle Arti Marziali Miste (MMA), uno sport che unisce svariate discipline (thai-boxe, judo, lotta libera, boxe, kickboxing). Vantava uno score incredibile: 22 vittorie, di cui 19 per knockout; il terzo fighter nella storia della Ultimate Fighting Championship (l’organizzazione statunitense di Arti Marziali Miste) a vincere due titoli in due differenti categorie di peso (pesi piuma e pesi leggeri) e il primo a detenerli contemporaneamente. Una macchina da guerra, nonché da soldi. Nel 2018 era il quarto atleta più pagato al mondo, subito dopo Cristiano Ronaldo, con un guadagno di circa 99 milioni di dollari. Tuttavia, quello che mi colpì di lui non fu la carriera sportiva, ma il suo background di vita. Andando a spulciare, saltò fuori che mentre i suoi coetanei sognavano di diventare rugbisti, lui voleva seguire le orme del padre, un ex pugile. Qualcuno sostiene che volesse imparare a difendersi per liberarsi dai bulli che lo perseguitavano a scuola: difficile dire se sia vero, in ogni caso pare che fosse un bambino basso e debole. Dopo aver lasciato la scuola iniziò a fare l’idraulico: lavorava dodici ore al giorno e nel tempo libero si allenava. Da adolescente, alla passione per la kickboxing abbinò quella per il calcio. Non è ancora chiaro per quale motivo avesse poi deciso di dedicarsi esclusivamente agli sport da combattimento. Intorno ai diciott’anni abbandonò anche il lavoro e da allora visse con il solo sussidio di disoccupazione offertogli dal governo irlandese. Era sicuro di riuscire a trasformare la passione per lo sport in un lavoro e grazie alla sua determinazione il suo sogno divenne realtà: in pochi anni si ritrovò catapultato fra le maggiori stelle delle arti marziali. 

La storia di McGregor mi ricorda quella di Corrado: anche lui era un tipo in gamba che credeva in sé stesso. Aveva perso il papà da bambino e finite le scuole medie era entrato in fabbrica. Lavorava su tre turni ed era un ragazzo serio, affidabile, ma soprattutto deciso, sempre focalizzato sui suoi obiettivi. Un giorno, mentre infilavo i guantoni, mi fece segno di avvicinarmi: «Se ti accorgi che sono in difficoltà, tu grida Gringo.» 

«Perché Gringo?» 

«Era il soprannome di mio padre,» piantò gli occhi nei miei. 

Non parlava quasi mai di suo padre; sapevo solo che era morto. Annuii e non feci domande.

Un mese più tardi andammo a Rimini per il Golden Dragon: il primo torneo di shoot-boxing organizzato in Italia a eliminazione diretta. Era aperto a tutti gli stili e metteva a confronto diverse discipline da combattimento (Kung-fu, Karate, Taekwondo, Boxe, Viet Vo Dao, Savate, Kickboxing, Jujutsu, Quan Ki Do, eccetera). Se non ricordo male, erano ammessi calci, pugni, ginocchiate, spazzate e prese. Io incontrai un karateka e fui eliminato al primo turno; Corrado invece arrivò in semifinale, dove incrociò un pugile albanese, uno di quelli rocciosi, che picchiano duro. Aveva un uppercut bestiale. Verso la metà della prima ripresa, il pugile infilò una combinazione devastante: montante sinistro al fegato e uno al mento. Corrado andò al tappeto e l’arbitro iniziò a contare. 

«Alzati Gringo!» urlai più forte che potevo. «Gringo non mollare!» La mia voce esplose nel silenzio fastidioso del palazzetto.

Corrado si girò su un fianco, poi si alzò in piedi con le gambe ancora tremanti. Perse ai punti, ma dimostrò di avere la stoffa del campione.

Talento che ovviamente non manca a McGregor. A questo punto però devo aprire una parentesi: dopo aver appeso i guantoni al chiodo, e sono passati diversi anni, smisi di guardare i combattimenti. Facevo un’eccezione solo per Corrado. I suoi match ho continuato a vederli fino all’ultimo, quando ha conquistato il titolo europeo. All’inizio non avevo chiaro il motivo per cui lo facevo e impiegai un po’ a capire. Il mio ritiro dalle gare era stato doloroso, mi ero ritrovato di fronte a un bivio: da un lato il mondo delle arti marziali, dall’altro l’inizio del lavoro per cui avevo studiato, lontano dalla mia palestra, dalla mia città. Alla fine avevo scelto di seguire la seconda strada e da quel momento in poi, ogni volta che sentivo parlare di kickboxing tendevo, in modo automatico, a cambiare discorso. Volevo prendere le distanze da quel mondo a cui avevo dedicato tutte le mie energie. Non lo feci per disinnamoramento, lo feci per non soffrire. In un angolo nascosto del mio inconscio mi sentivo in colpa per aver tradito me stesso, per aver voltato le spalle ai miei sogni. Non so se riesco a spiegarmi. Occhio non vede, cuore non duole. Affermazione scontata, vero? Eppure, andò così. Tagliai tutti i ponti. Buttai i miei calzoncini preferiti, quelli blu con una scritta in diagonale, le fasce per le mani, le cavigliere, la conchiglia, anche i guantoni della Leone. Finì tutto nella spazzatura.

Non so perché, ma la sera in cui sentii parlare di The Notorious, qualcosa mi spinse a scandagliare nella vita di quel campione dal carattere forte, estroverso, di quell’idraulico mancato. Senz’altro associai la storia di McGregor a quella di Corrado: guardi il match contro Eddie Alvarez, tenuto al Madison Square Garden di New York il 12 novembre 2016. Dopo neanche un minuto, il suo avversario finì dritto al tappeto, riuscì ad alzarsi e riprese a combattere, ma McGregor lo castigò con il suo counter-striking. Alla seconda ripresa, l’irlandese partì con una sequenza micidiale: diretto sinistro, destro, poi ancora sinistro e infine un destro che mandò ko Alvarez, ormai stremato. In pratica assistetti a un monologo di McGregor, che impose il suo ritmo feroce e conquistò il titolo dei pesi leggeri.

Dopo quel video mi buttai sul web per conoscerlo meglio. 

Il CR7 delle arti marziali veniva definito istrionico, arrogante e pieno di sé. Un atleta spesso sopra le righe, come quella volta che saltò nella gabbia e aggredì verbalmente l’arbitro oppure quando fu arrestato per aver distrutto il telefono di un ragazzo che voleva scattargli una foto. Secondo alcuni, avrebbe costruito la propria notorietà anche sulle finte inimicizie, alimentate prima degli incontri per garantire una maggiore spettacolarizzazione dell’evento. Le sue trash-talking sono note a tutti. 

Anche sotto questo profilo le assonanze con Corrado non mancavano. Pure lui era pieno di sé, fino al punto di sentirsi invincibile. Ma la sua spavalderia non dava sui nervi, anzi, era affascinante, a tratti contagiosa. Potrei definirla una sfrontatezza simpatica, sorretta da un’educazione di vecchio stampo. In effetti era un ragazzo fuori dal tempo, che conduceva un’esistenza sobria, ancora legata ai valori tradizionali.

La notte del ritorno alle gare di The Notorious volevo stare sveglio ad aspettare la diretta su Dazn, ma una stanchezza mortale mi impedì di tenere gli occhi aperti. Scivolai nel sonno e mi ritrovai alla T-Mobile Arena di Las Vegas, circondato da una marea di gente; quasi tutti gli spettatori indossavano delle maschere: alcuni quella di McGregor, altri quella di “Cowboy” Cerrone, il suo sfidante. Al centro dell’arena c’era una gabbia metallica alta due, forse tre metri, su cui sfilava una ring girl con un succinto bikini rosso e un cartello in mano. 

All’ingresso di McGregor gli altoparlanti spararono a tutto volume Eye Of The Tiger, mentre dal soffitto esplose una girandola caleidoscopica di luci. 

Il fighter di Dublino gonfiò il petto, spalancò le braccia a croce e abbandonò la testa all’indietro, in un chiaro gesto di onnipotenza, poi iniziò a saltellare sul ring. Sembrava carico di energia e dava addirittura l’impressione di ruggire. 

Cerrone, intanto, girava in cerchio e masticava con forza il paradenti, impaziente di liberare la sua bestia. 

A un gesto dell’arbitro, McGregor partì subito all’attacco, poi, con una serie di spallate al naso, riuscì a liberarsi da un clinch.

Nel frattempo, le urla dei tifosi erano diventate assordanti. 

Dopo aver riconquistato il centro della trincea, McGregor centrò l’avversario con un devastante calcio sinistro in pieno volto, cui seguì una ginocchiata e una gragnola di colpi. 

Cerrone crollò a terra e The Notorious lo assalì con una tempesta impressionante di pugni in testa finché l’arbitro non interruppe la carneficina.

KO tecnico dopo neanche 40 secondi. Tanto era bastato all’icona della MMA e alla sua barbetta puntata in avanti per dimostrare di essere ancora il migliore.

Mentre il pubblico si lanciava in una standing ovation, sentii ringhiare il cane. Aprii gli occhi, grattai la testa e mi accorsi che l’orologio sul comodino segnava le 3:00 del mattino: il match iniziava alle 4:00. 

Risi, poi mi domandai per quale motivo il Re delle Arti Marziali Miste era tornato a combattere. Era una questione di soldi? Oppure un desiderio di rivalsa? In effetti l’ultimo match l’aveva perso per sottomissione. Io la vedo così: puoi essere ricco sfondato, avere le auto più belle del pianeta, decine di fighe spaziali attorno e via dicendo, ma non c’è nulla che possa appagarti quanto un pubblico impazzito che urla il tuo nome. Alcuni emozioni sono insostituibili e quando le perdi ti senti smarrito.

Non so se anche a Corrado sia capitata la stessa cosa, ma da quando aveva smesso di combattere non era più lo stesso. I suoi occhi erano spenti e forse si sentiva solo. Vorrei poterglielo chiedere. Vorrei potergli parlare di McGregor, ma non è possibile. Il mio compagno di kickboxing, il guerriero che ammiravo per il suo coraggio, si è impiccato qualche anno fa. 

In guardia, Gringo.

*** *** ***

Fotografia a corredo di Michela Bin, per gentile concessione dell’autrice. Nata a Trieste nel 1972, Michela Bin è laureata in archeologia medievale presso l’Università di Trieste; appassionata di fotografia da sempre, ha approfondito le sue conoscenze, tra gli altri, con Graziano Perotti.


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