La storia dei miei dieci aborti

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Il primo aborto fu a quindici anni, mi accompagnò mia madre. Lui era un insegnante. Diceva che non mi avrebbe messo incinta, sapeva come fare: invece no. Capii che si diventa adulti quando si impara a mentire e che il piacere ha un prezzo, la fiducia un costo. L’infermiera era stanca ma gentile, il viso di mia madre mi accusava. Nessun altro sapeva. Due giorni dopo tornai a scuola e non ci pensai più: ero troppo giovane per portarmi dietro il passato.

Dopo il diploma decisi di fare la ballerina, mi esibivo sulle navi da crociera. Amavo gli applausi, mi sentivo al centro della vita degli altri, ma non della mia: rimasi incinta di Erik, il mio partner in scena. Si dirà che eravamo incoscienti, ma il furore della danza non lascia tempo per le precauzioni. Sentivo che quel bambino avrebbe ucciso i miei sogni, così scesi al primo scalo per il mio secondo aborto. Lui era d’accordo: avremmo avuto un figlio più avanti, quando ci avrebbe baciati il successo. La nave ripartì, non lo rividi più.

A trent’anni mi dissero che per diventare una vera ballerina non ero abbastanza brava, avrei dovuto impegnarmi di più. Ma ero troppo vecchia, così trovai un lavoro da segretaria. Conobbi un collega, un bravo ragazzo, Andrea. Mi amava e voleva una famiglia, non osai dirgli che non mi sentivo pronta. Era il primo ad amarmi e non volevo perderlo. Lo feci di nascosto, fu il terzo aborto. Poi iniziai a prendere la pillola, la nascondevo tra i rossetti. La trovò e fui di nuovo sola.

Forse avevo dei sensi di colpa, così decisi di fare del bene, e siccome avevo perso il lavoro partii per una missione in Africa. Mi stancai presto, il mio desiderio di espiazione non era abbastanza grande per quella fatica, in compenso incontrai un quarantenne, un francese, che un po’ aiutava la gente del posto, un po’ la studiava e un po’ la sfruttava per la sua carriera di antropologo. La generosità spesso funziona così. Stavo bene con lui, iniziai a volere un figlio, poi conobbi il suo assistente, o servitore, Chad: il mio quarto aborto fu necessario, non sapevo il padre né il colore. Un uomo avrebbe potuto perdere il lavoro, un altro, il dono della filantropia. Compresi che fare la missionaria non era per me, tornai a casa. Ora però ero decisa, appena avessi trovato un uomo accettabile, ad avere un figlio.

Incontrai l’uomo perfetto e rimasi incinta quasi subito. Quando le cose vanno proprio come vorremmo, è allora che bisogna avere più paura. L’ecografia rivelò una grave malformazione, «incompatibile con la vita»: il giorno del mio quinto aborto, piansi anche tutti quelli precedenti.

Caddi in una profondissima crisi e iniziai a frequentare la Chiesa. Una novità assoluta per me, atea convinta. Incontrai un parroco comprensivo, mio coetaneo. Gli raccontai tutto. Mi disse che Dio non giudica, Dio perdona: la mia anima meritava di essere salvata. Pregavamo insieme nella sagrestia, quasi ogni giorno, e nella confidenza del Signore, ci unimmo in un mistico amplesso. O almeno, tale mi parve. Pensavo ormai così poco alle cose del mondo che mi accorsi di essere incinta solo al quarto mese, oltre i termini di legge. Volevo davvero quel bambino, sentivo che il mio corpo desiderava proteggerlo: c’era qualcosa di divino in quel concepimento. Ma appena lo dissi a lui, mi parlò di decenza; quando gli nominai Dio, abbassò gli occhi. Chiamò un suo amico medico, una persona discreta. Mi provocò un’emorragia, poi per miracolo riuscì a fermarla. Tra i fiotti di sangue del mio sesto aborto, anche la mia fede fuggì via per sempre.

Passò il tempo che tutto guarisce e un giorno incontrai un uomo davvero intelligente, Alberto, uno scienziato. Con il suo esempio iniziai a leggere, mi iscrissi all’università. Per lui il dilemma dell’aborto non si sarebbe risolto mai: la scienza non poteva indicare con certezza quando ha inizio la coscienza, l’anima, la scintilla della persona umana. Al tempo stesso, non potevamo mettere al mondo figli non voluti: avremmo fatto loro un torto ancora più grande. Ma proprio la scienza avrebbe un giorno risolto il problema. Lui stesso faceva parte di una équipe che studiava, tra le altre cose, il modo per curare in utero ogni malformazione. Nel frattempo io prendevo la pillola, eppure rimasi incinta: la scienza davvero non era perfetta. Mi disse che gli dispiaceva, ma nella sua vita non c’era tempo per i bambini. Se volevo quel figlio, avrei dovuto arrangiarmi: lui era dedito a cose più grandi. Ma ormai lo ero anch’io: fu il mio settimo aborto.

Dell’ottavo aborto ricordo poco. Fu un’avventura, lui aveva un nome che iniziava per P. e indossava un preservativo che si rivelò inadatto. Dopo aver abortito tante volte, se fai un figlio, deve essere speciale.

Poi, una sera, la mia vita cambiò. Un uomo in passamontagna, in un vicolo, mentre tornavo a casa da sola. Finché non accade, sembra che possa capitare solo alle altre, oppure in un film. Invece succede. Feci una denuncia contro ignoti e il mio nono aborto. Nella sala operatoria, con le gambe aperte davanti all’ennesimo maschio, decisi che non volevo più essere donna. Era troppo difficile. Ingannare gli psicologi, invece, fu molto più semplice.

Al mio decimo aborto, ero un uomo. Si trattava di autofecondazione, un evento rarissimo ma possibile, in un transessuale. Così disse il dottore che mi visitò. La crescita, tuttavia, non sarebbe stata facile, e poi il mondo avrebbe mai accettato un figlio da un mostro come me?

Oggi  che non so chi sono, e ho capito che anche essere uomo non è facile, quando ripenso ai miei aborti mi dico che qualche volta ho deciso io, altre non avevo scelta, altre ancora avrei avuto soltanto bisogno di aiuto. Ma una cosa è sicura: nessun atto è stato indifferente, privo di conseguenze. Ora che sono sia uomo che donna – eppure non mi basto – capisco che l’aborto non è solo questione di genere, di diritto, di scelta. Non è un tabù, né una bandiera, né un crimine, né un fatto irrilevante. Queste sono spiegazioni che ci diamo, nel tentativo di vivere meglio, ma l’unica verità sta nel mistero che l’umanità continuerà a portarsi dentro, finché avrà questo nome.

*** *** ***

L’opera in fotografia a corredo del testo è di Stefanie Oberneder: scultrice nata a Lindau, in Germania, nel 1976, l’artista vive e lavora a Carrara. Ha tenuto numerose mostre personali e collettive, in Italia e all’estero, ricevendo diversi riconoscimenti. Dal 2014 ha promosso e curato tutte le edizioni di “Carrara Studi Aperti”.


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