Covid: voce del verbo co-videre. Come nasce la Pura Razza Immune, sottoprodotto dell’uomo tecnologico

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Questa pandemia è stata un miracolo? Mentre me lo chiedo, sto saltellando tra i capitoli de Il Gioco del Mondo di Julio Cortazar, un vero e proprio lusso da quarantena.

Sui risvolti psicologici e sociali del COVID-19 si può già leggere tanto, forse per alcuni troppo e forse per altri non abbastanza. Chi ipotizza un mondo nuovo (migliore?), chi ha da subito cominciato a rimpiangere un mondo vecchio (migliore?), chi piange miseria (più di prima?) e chi finalmente si è potuto riposare per due mesi riscoprendo una vita nuova (quella vera?).

Io, ad esempio, negli effetti collaterali del Coronavirus mi ci sono specchiato e nel suo valore aggiunto mi ci sono riconosciuto.

Cosa succederà?

Prima di tutto bisogna guardare ai risvolti utili: d’ora in avanti avremo un lasciapassare universale e (almeno fino al profetico vaccino) sempre valido. “Perdona il ritardo, sai con la storia del Coronavirus…”, “Le fatture di febbraio gliele pago da settembre. Come potrà immaginare con la pandemia…”, “Verrei a trovarti volentieri, ma con queste limitazioni non mi fido e mi sembra poco saggio”. Una scusa evergreen che non richiederà sforzo poiché farà leva su una coscienza-sofferenza globale e condivisa. “Siamo tutti sulla stessa barca”.

Secondo punto: ci troveremo in un mondo nel quale non saremo mai stati tanto puliti. Gel igienizzanti disponibili a ogni angolo, in quello che si trasformerà in un mondo asettico fatto di lattice e plexiglas, di guanti e barriere. Una gigante sala operatoria en plein air dove sul tavolo ci saremo noi, pazienti e chirurghi allo stesso tempo, intenti ad aprirci con un bisturi per asportare cisti di politically correct e noduli maligni di buonismo. Finalmente.

Un mondo vietato ai febbricitanti di ogni razza ed età che hanno già perso il diritto di accesso praticamente ovunque, un pianeta proibito ai vecchi, che dopo soltanto due mesi vivono o muoiono già nel ricordo di un mondo obsoleto. Nuove leggi, auto-monitoraggio, isolamenti, tamponi. La formazione della nuova Pura Razza Immune (sul concetto di immunità biopolitica si vada a consultare il lavoro di Roberto Esposito e Paul-Michel Foucault) nasce dalla dittatura della precauzione.

Un esercito di cittadini-modello, che sventola bandiere di senso civico, si riverserà sulle strade di questo mondo. Moltitudini di anti-eroi sovrappeso, paladini resi semi-irriconoscibili da una contro-maschera che non servirà a nasconderci, ma che sarà necessaria a guardarci e ad accettare noi stessi, «o a rifiutarci, ma conoscendoci da vicino» scrive Cortazar.

Ci basteranno quattro strati di tessuto chirurgico fluido resistente per ottenere poteri straordinari come quello di non dover più pretendere falsi sorrisi, di non doverci più preoccupare dell’alito cattivo, dei peli del naso, o di poter tranquillamente permetterci di far finta di non riconoscere qualcuno, “oh scusa, ma con queste mascherine, sai com’è…” La mascherina diventa anche una vanvera, la soluzione per contenere le flautolenze vocali del prossimo.

Supereroi, o forse superpazienti, controllati e monitorati nella nostra cella domestica ma col potere più incredibile di sempre: non avere bisogno di nessun altro.

Ma gli affetti (o «i congiunti» per rimanere attuali)?

Molto facile, gli affetti per definizione non sono bisogni, ma «sentimenti particolarmente intensi» (Treccani). Affascinantisisma la traslazione di significato che sfocia direttamente nel mondo di virus e batteri nella sua accezione aggettivale “essere affetti”.

Non sono bisogni nonostante lo sforzo immane dalle catastrofiche conseguenze di tutta la compagine letteraria romantica (sì, anche la letteratura ha le sue colpe) che, tra tanti mostri, oltre a Frankenstein, ha arredato di sentimento l’abusatissima e disperato-patetica affermazione «ho bisogno di te». Un vero e proprio insulto etimologico il più lontano possibile da qualsivoglia idea di complimento: la cacca è un bisogno, non l’amore, per cui non aver bisogno di qualcuno si conferma un potere da super eroi.

Riprendo una pagina appena letta, ammettendo tra me e me che in questo momento storico spesso ogni parola tende a esser recepita troppo rapidamente dal mio cervello come una profezia, o un bunker.

«Nel fondo potremmo essere come in superficie, però dovremmo vivere in un altro modo. E che significa dire vivere in un altro modo? Forse vivere assurdamente per stroncare l’assurdo, lanciarsi in sé con una tale violenza che il salto finisca fra le braccia di un altro. Sì, forse l’amore, però la otherness dura quanto dura una donna, ed inoltre solo per quanto riguarda quella donna. In fondo non esiste otherness, appena la piacevole togetherness. Certamente è già qualcosa…»

(Julio Cortazar, Il Gioco del Mondo, p.108, Einaudi,2013)

E l’economia? Le aziende? Tutta la gente che continuerà a morire?

Tranne le persone, non morirà nulla, ma le persone morivano anche prima (meglio?).

Tutt’al più si chiuderà, questo sì. Con un’epoca, con un modello economico comunque saturo che nel grande Business Plan Globale non ha mai annoverato tra i propri rischi quello più grave: l’essere umano, l’elefante nella stanza.

Dopo decenni di sforzi spesi a promuovere e facilitare (forzare?) il modus vivendi del “convivere”, si passerà al distanziamento sociale, ma questo passaggio sarà molto più rapido e senza dubbio più efficace. Se il convivere è stata la corda dell’arco che si tende, ora siamo arrivati al rilascio che scaglia la freccia con buona probabilità di fare centro, perché di tempo per prendere la mira ne abbiamo avuto in abbondanza.

Quindi non vivremo più “con”, o meglio, ci punteremo la preposizione alla tempia e vivremo principalmente “con” noi stessi, presumibilmente, per una volta, piacendoci.

Il distanziamento sociale sarà la più grande opportunità di apertura individuale, forzata è vero, ma sincera. Da soli non ce l’avremmo mai fatta, non dopo secoli di fraudolente propagande “sociali” che ci hanno scolpito come essenziali tasselli di un mosaico senza disegno.

Un neologismo di stampo classico: co-videre = vedere con (gli occhi?).

Sarà transitorio, ma dal convivere al covidere potremmo trovarci bene. Un passo indietro o un passo avanti? Difficile da dire, ma sicuramente un passo propedeutico, ora necessario.

Dunque un virus che diventa verbo, e non solo inteso come parte variabile del discorso ed elemento fondamentale sufficiente e necessario a determinare l’esistenza, ma anche e soprattutto come verbum = parola e quindi linguaggio a tutti gli effetti. Un linguaggio universale e autentico ma primitivo perché straordinariamente privo di accezioni e, di conseguenza, senza margini d’incomprensione. Un linguaggio monosignificante e veritiero.

Accadrà anche che qualcuno (tanti?) ricorderà il COVID-19 con genuina nostalgia, forse con una lacrima di commozione: “quando c’era il COVID”, e in questo non ci sarà nulla di bello né di brutto. Molto banalmente sarà, perché già lo siamo.

Intanto è maggio, maius, il mese di Maia dea della terra e dell’abbondanza che si genera dalla radice indoeuropea magh- maggiore, il più grande.

Sarà semplicemente un altro maggio.

*** *** ***

La fotografia a corredo è di Fulvio Orsenigo (1961), fotografo di architettura e di paesaggio. Al centro del suo lavoro, il rapporto tra rappresentazione spaziale e processi percettivi, che viene esplorato nei progetti sull’architettura e sul paesaggio con strategie di volta in volta diverse. Cofondatore del collettivo di fotografi “Fuorivista”, ha esposto alla Biennale di Venezia, alla Biennale di Architettura e alla Triennale di Milano; ha realizzato diversi progetti e volumi, insegnando fotografia presso la facoltà di Architettura dell’Università di Venezia.


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