“La misura del tempo” di Gianrico Carofiglio riletto in base al Decalogo

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Quando abbiamo lanciato il nostro Decalogo letterario, alcuni scrittori lo hanno definito banale.

Demetrio Paolin in un post ha ripercorso i punti uno a uno, indicando riferimenti a opere che a suo parere li soddisfacevano già. Per noi, un punto qualificante: i riferimenti citati erano tutti capolavori, anche se per lo più stranieri. Il punto di caduta della sua critica stava altrove: se è possibile trovare tracce di alcuni aspetti del decalogo in opere esistenti, la condizione necessaria per portare l’opera su un altro livello è la loro applicazione simultanea.

Invece, la risposta difensiva del mondo editoriale è stata questa: tutto giusto, tutto scontato, niente di nuovo.

Be’, forse è il caso di ripensarci, di capire che non si tratta di difendere nulla che non sia già svanente di suo, se è vero che i celebrati finalisti del premio Strega, come già visto qui e qui, insieme alla maggior parte della produzione letteraria corrente, abitano ancora nel medioevo letterario.

La misura del tempo, in questo senso, è un testo che disattende in modo sistematico ognuno di questi punti, che sarebbero, secondo i nostri critici, semplici ovvietà che non producono nessuno scarto.

Ma andiamo con ordine: intanto cos’è La misura del tempo? Un legal thriller? No, perché l’intreccio è piatto, pretestuoso, come se l’impiego del genere non fosse che un alibi per raccontare altro: un ragazzo sospettato di aver ucciso un amico per una lite tra spacciatori innesca l’azione. Nessuno dei personaggi ha un lato oscuro, uno spessore: non esistono particolari disturbanti o twist epocali. Carofiglio non ci permette di fare niente con il suo testo: né di indagare sulle relazioni umane né di affezionarci a un personaggio né di godere del semplice intrattenimento. L’ex magistrato ci propina i suoi personaggi come fossero dei tester: funzionali solo all’autore, e allo sviluppo di una vicenda banale. 

Se non si è in grado di portare il lettore su una giostra emotiva capitolo dopo capitolo, alla lunga la storia crolla, l’attenzione collassa: il finale, che abbiamo raggiunto a fatica e per dovere di testimonianza, smette di essere la risoluzione naturale di un intreccio per diventare il capriccio di chi deve portarsi a casa in qualche modo il romanzo.

C’è forse, allora, un significato profondo, come suggerisce il titolo pretenziosetto? Che La misura del tempo sia un testo impegnato? Niente del genere: la scelta del titolo (che immaginiamo abbia vinto il ballottaggio con il più onesto Un giorno in pretura) è dovuta a una serie di frasi enfatiche sul tempo che scorre: didascalie che interrompono a casaccio la narrazione e si offrono come uno squisito esempio di ripetizioni di concetto. Se a un certo punto troviamo «Il tempo accelera con l’età», due pagine dopo arriva la battuta: «Hai mai fatto caso, Guido, a come la vita sembri accelerare con l’età?»); e ancora: «Il tempo è molto più esteso per i giovani perché sperimentano in continuazione cose nuove… Il tempo scorre veloce quando si invecchia perché, di regola, si ripete sempre uguale…» 

Insomma, questa vicenda non rende alcun onore al titolo “wannabe proustiano”, sembra piuttosto l’inno dei frustrati che studiano tutta la vita per costruirsi una posizione e vendicarsi fuori tempo massimo su chi brilla di luce propria e si brucia presto. 

Questioni di stile

Come si è detto, i personaggi sono imposti, più che narrati. «Avevo incontrato un collega, Enrico Garibaldi, quasi un amico, avvocato, civilista… Un tipo simpatico, con cui si poteva fare qualche buona risata. Un’ottima persona e anche un bravo professionista.» Ma cosa sono queste descrizioni lasciate solo all’uso degli aggettivi? Il corsivo di un giornalista che ha solo duemila battute per fare uno straccio di ritratto? E poi perché l’autore ci dice cosa dobbiamo pensare di Enrico Garibaldi (delineando tra l’altro un personaggio di raro grigiume, per non parlare del solito simbolismo involuto sul cognome)? Non sarebbe meglio un po’ di ambiguità? Eppure Carofiglio, a un certo punto, ci spiega la sua stessa malattia letteraria: «Un’espressione perfetta per descrivere questa attitudine, la difficoltà a riconoscere uno spazio alle interpretazioni e alle posizioni altrui: ambiguofobia

Si vorrebbe, da lettori, che i personaggi si mostrassero gradatamente, lasciando indizi en passant, non comunicando informazioni riassuntive. Altrimenti che spazio di interpretazione e di proiezione nel testo viene lasciata, appunto, ai lettori?

La tensione narrativa viene castrata con vero masochismo: la fuga da ogni possibile intrigo sembra la priorità dell’autore, come accade nelle prime pagine del romanzo: «Non feci domande, solo un rapido calcolo mentale: non poteva essere figlio mio.» D’accordo, il personaggio sa contare, ma è davvero necessario anticipare e quindi depotenziare determinate informazioni? Un thriller semina indizi a raffica per intrigare a dovere il lettore, farlo guardare da una parte per poi schiaffeggiarlo dall’altra. Invece qui l’autore incarica il vice-narratore di fare previsioni sullo svolgimento e un paio di capitoli dopo fa accadere puntualmente la circostanza anticipata, spesso attraverso espedienti farraginosi, come le lunghissime trascrizioni degli interrogatori: sembra che la priorità sia sempre quella di convincere il lettore, pagina dopo pagina, di quanto Guerrieri sia in gamba, virtuoso, arguto e calcolatore. Mai che un personaggio, e quindi il lettore, vengano presi in contropiede dalle aspettative create e dall’idea che l’autore si è fatto della vicenda e dei suoi significati, del suo nudo messaggio

Eppure, l’autore sembra consapevole dei propri limiti nel tenere il dettato e il tempo della narrazione: «Va bene, ho divagato,» (dopo aver parlato per tre pagine col suo sacco da boxe e altre tre di come si cucinano gli spaghetti all’assassina); «Il lessico rivela molto delle persone, pensai. Poi pensai che, forse, le mie erano riflessioni banali. Capita spesso, non riesco a trattenermi.» Capita spesso di non riuscire a trattenersi, è vero, ma per questo ci sono soluzioni: un buon gabinetto di studio, per esempio, avrebbe dovuto impedire che le parole di un poliziotto americano anni ottanta finissero di continuo in bocca a un’investigatrice pugliese. «Stammi a sentire, stronzetto. Stammi a sentire bene: io non lo so se hai ammazzato il tuo amico Gaglione, Non lo so e preferisco non saperlo. Se mi rimane il dubbio, forse posso continuare a lavorare su questa storia. Però tu devi avere ben chiara una cosa: noi siamo la tua unica speranza.»

Troppo trattenute, tutto all’opposto, le situazioni di sesso – introdotte da dialoghi imbarazzanti del tipo: «Sai cosa penso? Potremmo dedicarci a del torbido sesso clandestino» –, con tanto di tendine anni cinquanta che chiudono il sipario sulla scena, un attimo dopo.

Ricapitolando: niente intreccio, niente stile, niente dialoghi, niente giostra emotiva. Tutti elementi che troviamo, invece, in un thriller liberamente ispirato al caso Cogne, L’avversaria di Michela Srpic. E qui introduciamo una imperdonabile pars construens. 

Mentre Carofiglio ci porta a essere schiavi di una presunta verità – secondo l’ideologia della verosimiglianza, in base alla quale il fatto di cronaca è una verità oggettiva o l’unica verità che conta –, a Michela Srpic della verità non interessa nulla. In effetti, il caso Cogne è già stato analizzato in tutti i modi da media e inquirenti, c’è una sentenza passata in giudicato, qui non si tratta di scoprire quanto è “realmente accaduto” e che tutti conoscono, magari con indagini autonome dello scrittore alla Truman Capote o con inserimenti, chiose, riflessioni dell’io narrante dell’autore alla Carrère o alla Saviano, no; qui l’autrice ha preso lo schema del fatto di cronaca e ha provato a immedesimarsi nella vicenda a partire da fattori antropologici universali, accessibili a chiunque, proiettandovi il proprio vissuto, la sua esperienza di maternità, per esempio, o i rapporti complicati che esistono in qualunque famiglia a partire dalla sua. 

L’autrice ha quindi ambientato sé stessa nella spoglia di un fatto, al bivio di eventi eccezionali, che a lei non sono accaduti ma che avrebbe potuto vivere se solo le cose si fossero messe in un determinato modo. Quale? Questa è la polpa narrativa che non conosciamo del caso in questione. 

Sappiamo già come andrà a finire, ma questa consapevolezza, anziché allentare la tensione, diventa invece l’elemento inesorabile che rende la discesa all’inferno ancora più disturbante.  

E ancora: la Srpic utilizza ad arte l’arma del soprannaturale psicologico – la realtà aumentata attraverso determinati, contagiosi disturbi del sonno –, e l’atmosfera che si respira mischia il “teatro mentale dell’orrore” di cui è oggi maestro, dopo Stephen King, Thomas Ligotti, con l’iperrealismo del found footage.

È difficile spiazzare con un libro, molto di più di quanto lo sia con un film, non c’è la componente visiva, e nemmeno i jump scares; per entrare nei nostri incubi, L’avversaria usa un’arma più subdola e letale: ci preme in faccia il mostro così tanto da non farcelo più sembrare tale, e quando l’immedesimazione è completa, si limita a porgerci uno specchio. E a quel punto, non sappiamo più chi siamo.


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