Su “Giardino della gioia” di Maria Grazia Calandrone: l’auto-inganno della “poesia civile”

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In uno dei primissimi testi del libro si potrebbe già trovare, precisamente da pagina 8, il motivo per chiuderlo: “diceva sempre senza la poesia / io non capisco niente della vita” – che, volendo, sono pure due endecasillabi: e allora? La poesia come modo di “capire la vita” è abbastanza deludente: se voglio “capire” ho mille altre strade; e poi, cosa significa “capire”? Cosa è questa cosa che qui si chiama “vita”? Certo, è un monito di molta poesia recente, che è convinta di staccarsi dall’autoreferenzialità della scrittura per diventare “civile”: la Calandrone ce lo dice proprio in esergo al libro, con una frase – no, scusate, sono tre versi (anche se non si capisce perché sono tre versi se non per l’andare a capo) – ormai di una banalità sconcertante: “Siccome nasce / come poesia d’amore, questa poesia / è politica”. Si tratterà di vedere, dunque, a che livello si instaura la politica del testo e la sua modalità di “capire”.

Dunque, diciamolo subito perché, a mio parere, non si tratta di poesia “politica”: un uso della parola, della frase e del verso che non tocca di un millimetro il limite interno del linguaggio, che non lo mette mai in discussione nella sua pratica in atto, cioè nella scrittura nel suo farsi, non credo possa intercettare il nucleo davvero politico del fare poetico. I testi scorrono su questo binario sicuro della presupposizione del poetico, con rari sbalzi di bellezza, che lascio al lettore intercettare, e con tante cadute nel banale scambiato per “sincerità e nudità”: “Diceva sempre / ditele che la amo / e ditele che ho fatto tanta strada / per amarla”; “se dici amore / le altre parole / spariscono”; “ogni altra parola / significa / grazie”; “io ti desideravo con onestà / come si desidera il bene”, e la lista potrebbe continuare ancora molto.

Ma, mi chiedo, cosa significa essere sinceri e nudi con le parole? Significa questo dire parole semplici, persino banali, e credersi coraggiosi perché nudi nel farlo? Ma un poeta non dovrebbe sapere e praticare il linguaggio come complessità, come codice ad un tempo prezioso e incatenante, per essere davvero un poco nudo e disarmato? Non dovrebbe sapere e vivere i vari codici linguistici come qualcosa che non riguarda solamente e principalmente la superficie dei significati ma il farsi del significante, i suoi vuoti, i suo salti, il nostro esserne abbindolati e scossi? E non sto parlando di una scrittura orientata in senso sperimentale, ma di una realtà effettiva che non si può nascondere perché, altrimenti, fingendo la nudità e l’inermità di fronte al linguaggio, si finisce per produrre esattamente il suo contrario: rappresentazione e padronanza attravero i significati, i sentimenti (che non sono altro che rappresentazioni del sentire nel suo farsi continuo) – qualcosa che non può toccare e incidere il corpo del lettore proprio perché sembra non avere inciso, se non a livello dei “sentimenti”, lo stesso poeta. Eppure ormai sappiamo come funziona la percezione! Sappiamo che ogni nostra rappresentazione è difensiva, positiva o negativa che sia, che è una sorta di tappabuchi, per usare l’espressione di Bonhoeffer, nei confronti di quell’io che tanto si vorrebbe relativizzare; sappiamo che la nostra mente, inestricabilmente legata all’azione e al corpo proprio attraverso i codici linguistici, rimane colpita non tanto a livello dei significati e delle rappresentazioni, ma piuttosto ad un livello più profondo e insieme più “esteriore” – e che i significati stessi, come i concetti basilari, nascono da un movimento cinestetico interno all’esperienza corporea: se il testo non diventa un fare (è del resto il significato del termine “poesia”), se non si dona come un corpo vivo che accade nel presente della lettura e non nel passato fissato dai concetti, dalle immagini e dai significati, non c’è davvero relazione dinamica, non c’è comunicazione se non di pacchetti preconfenzionati di significati e di immagini, spesso stereotipate, del codice poetico stesso.

Pensiamo, ad esempio, ad un poeta “semplice” e leggibile come Attilio Bertolucci, non certo ascrivibile all’avanguardia: il suo narrare è in apparenza, sul piano delle immagini e dei significati, estremamente limpido e piano; ma ciò che lo rende un grande poeta è la sua capacità, quasi da sonnambulo, di terremotare con smottamenti minimi e sbalzi aritmici, l’impianto formale del testo sia dal punto di vista sintattico che prosodico, facendo partecipare in prima persona il lettore alle sue “aritmie”, alle sue ansie e al suo bisogno inesausto e inappagato di quiete. Il “realistico”, insomma, sembra accadere a livello dei significanti e delle forme, fino alle giunture sintattiche e grammaticali, scorrendo sotto l’apparente tranquillità e piacevolezza della rappresentazione, creando un continuum tra voce, ritmo e senso che non può non catturare il lettore nelle sue spire.

I testi infatti, nella maggior parte dei casi, scorrono via senza mai diventare pietra d’inciampo, senza mai mettere in discussione se stessi e lo stesso codice linguistico e poetico – unico modo, io credo, per essere davvero nell’ambito del politico e del civile senza soccombere alle stesse controllate e previste vie di fuga che lo stesso sistema ci fornisce ampiamente: lo so, sono cose vecchie da dire, eppure è proprio questo il guaio, perché sembra proprio che i poeti come Calandrone non le conoscano o, meglio, come spero, decidano di non prenderle nemmeno in considerazione. E così, propriamente, non accade nulla. La noia si fa sopportabile – con le sue consolatorie “bellezze”, con le sue misere “tenerezze”, con i suoi finti sguardi feriali, “disperati” o “gioiosi” – e quindi effettivamente mortale per la poesia. E quanto scrive, quanto sono infinitamente fitti questi testi… sembrano non finire mai… e così, ciò che dovrebbe, almeno nei significati dichiarati, essere anche una ricerca di essenzialità, un “mettere a nudo”, a livello effettivo della scrittura si fa pletora debordante: essa non appartiene, almeno in questo libro, al “dire”, ma al “detto“, ai significati e alla rappresentazione – e non accade, insomma, nel testo e nelle sue dinamiche stilistiche ed ergo-emotive: il lettore, quindi, non vi può davvero partecipare se non a livello dei significati e delle immagini, che è come dire che non vi partecipa affatto. E sembra inutile, da questo punto di vista, anche il tentativo di variazioni metriche, qualcosa di simile al prosimetro, per gli stessi motivi detti sopra.

E così, a mio avviso, tre quarti dei testi inseriti potrebbero benissimo essere tolti e non succederebbe nulla; cosa che si potrebbe dire molto spesso anche per l’articolazione formale, metrica e prosodica: si potrebbe cambiare l’andare a capo, l’ordine delle parole e l’andamento ritmico e non accadrebbe nulla, segno che il lavoro, come detto, avviene a livello della rappresentazione e dei significati: e allora, mi chiedo, perché scrivere in versi? Per far passare per poesia banalità come quelle indicate sopra? Per raggiungere livelli di chiusura “sapienziale” del testo come questo?

L’indimenticabile

lingua di questo

infinito

amore

mio

Cose che nemmeno nel diario di un liceale si troverebbero. E si arriva persino alla retorica pedagogica, davvero imbarazzante:

io dico a voi, ragazzi: la bellezza

è gratuità del gesto,

come quando vi amate,

è il momento preciso in cui un essere umano

si stacca da terra

[…]

E abbiamo pure un gatto “con l’ugne estese per tutto l’acume”, che “prende pose sartriane” e “si spalma (anch’egli / per ozio) / sovra mestissime riflessioni su inconsistenza e inanità / del tutto […]”.

E la noia, non certo baudelairiana, e l’imbarazzo, continuano.

Eppure, in un testo come “Intelletto d’amore”, Calandrone dice che la poesia è qualcosa che non è legato ai significati e alle parole. È un testo centrale, programmatico e fondamentale, perché rivela l’intento come esatto contrario dell’opera effettiva. È, tra l’altro, infarcito di banalità pseudoscientifiche e pseudopoetiche – il che non significa che siano false ma piuttosto scovate in qualche rotocalco o sull’ultimo numero di Focus per caso, senza alcun approfondimento, come quando cita Margherita Hack trasformandola in “Siamo figli delle stelle” di Alan Sorrenti; o l’immancabile, trattandosi di “intelletto d’amore”, citazione scolastica dantesca “che move il sole e l’altre stelle”. Ma quello che è più grave è sempre lo stesso punto: Calandrone dice queste cose ma non le lascia agire, non accadono nel movimento interno del testo ma solo nel suo “detto”, come si trattasse di una serie di istruzioni per l’uso, didascaliche fino alla noia, ancora – tra l’altro abbastanza penose, visto che di queste cose la scienza parla da almeno 50 anni … e poi ci lamentiamo perché la scienza ha preso il posto della letteratura e della poesia. “A me basta il linguaggio, per essere davanti / al mistero” ci dice la poetessa in un altro verso in cui si confronta con uno interessato all’astrofisica, ma abbiamo capito come usa il linguaggio, lei: nello stesso testo, “Dico che dall’inizio del mondo scritto / i poeti scavalcano il mistero / della materia, diventando il mistero […]” – ma no, non è così nel suo caso a me pare – lo dice soltanto, ma non diventa mistero, non entra nella pratica in atto, nell’evento del mistero con la lingua e i suoi codici estetici, e se ne tiene lontana proprio con dichiarazioni come queste.

Lascio perdere i tentativi di ingresso del poeta nella cronaca, didascalici e privi di qualsiasi interesse, dal mio punto di vista: un profluvio di parole, ancora una volta, un affastellamento di rappresentazioni in cui rimane solo l’illusione di una relazione immersiva poiché, descrivendo e rappresentando, la parola si difende, non abdica al suo presunto potere, alle sue strutture di significato, non si lascia deformare e straziare nella forma e nei significanti che incontra o immagina di incontrare, cadendo in una partecipazione che, al massimo, potremmo dire sentimentale o moralistica. Qui non è in discussione l’onestà o meno della Caladrone nel suo slancio partecipativo e di condivisione: è il testo, lo stile e la lingua che non consentono al lettore di immergersi davvero nelle vicende raccontate, ma solo di guardarle con l’occhio del poeta, da una prospettiva quindi protetta e non in prima persona – una sorta di illusione di realtà come quella fornita dalla prospettiva rinascimentale, in cui il realismo diventa fantasmatico meccanismo di auto-illusione; l’esatto contrario, ad esempio, di ciò che accade con l’icona ortodossa.

Dopo tutta questa pletora fittissima, dopo questa esagerazione di testi affastellati anche dal punto di vista grafico – un libro, questo, che potrebbe racchiudere per numero di parole due opere omnie di Penna, a proposito di chiarezza – Calandrone ha pure la faccia tosta di concludere tutto il suo percorso testuale con queste parole: “[…] La giornata è compiuta, se ho lasciato / una riga di bellezza / su un foglio bianco, o in uno sguardo umano. / Non aggiungo altro. Non c’è / altro”.

Sì, non c’è altro, uno pensa alla fine del libro, grazie a Dio.

***

L’opera in fotografia a corredo del testo è l’Etegami “Mud in your eye. Omaggio a La pelle di Curzio Malaparte”, (acquerello, 10 x 15 cm), di Floriane Pouillot, per gentile concessione dell’autrice. L’artista (1976) ha studiato all’Accademia di Belle Arti di Carrara. Ha collaborato con la casa editrice Transeuropa dal 2004 al 2013, curando la grafica di tutte le collane e del sito web. Insegna Disegno e Storia dell’Arte, si occupa di progetti di illustrazione, grafica e stampa hand made.


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