I bambini non sono protetti, sono soggiogati dagli adulti: apriamo almeno un account social perché possano insultarci

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Sono tempi duri per i genitori, i nostri figli non dicono niente da mesi.

Se sono piccoli è perché sono piccoli, se sono grandi è perché sono grandi. Ma non parlano, comunque.

Sono indispettiti, più del solito. Ci abbracciano come se dovessero perderci, poi si sentono in colpa perché l’hanno fatto.

È colpa loro, è colpa nostra. Perché la malattia, la paura, sono un fatto individuale, non hanno cause esterne, nulla a che vedere con la società che le ricomprende. Mark Fisher quando parla di “capitalismo reale” e malattia mentale ci spiega bene il perché. E questo “perché” può essere esteso oggi più che mai a molti tipi di malattie, o più in generale a “la malattia”.

“L’ontologia oggi dominante nega alla malattia mentale ogni possibile origine di natura sociale. Ovviamente la chimico-biologizzazione dei disturbi mentali è strettamente proporzionale alla loro depoliticizzazione: considerarli alla stregua di problemi chimico-biologici individuali, per il capitalismo è un vantaggio enorme. Innanzitutto rinforza la spinta del Capitale in direzione di un’individualizzazione atomizzata (sei malato per colpa della chimica del tuo cervello); e poi crea un mercato enormemente redditizio per le multinazionali farmaceutiche e i loro prodotti (ti curiamo con i nostri psicofarmaci)”

tratto da “Realismo capitalista” di Mark Fisher

Fin dai tempi del taylorismo la traiettoria è stata quella di marginalizzare “l’elemento umano”, evitare che l’uomo, in quanto “umano”, potesse manomettere un sistema piramidale congegnato razionalmente. I McDonald ci hanno insegnato a svolgere micro attività, piccole cose, in maniera ripetitiva pur di aiutarci a non commettere sbagli.

Allo stesso tempo però potremmo dire che il capitalismo non si evolve, lascia evolvere tutto il resto, per poi ricomprenderlo. Se prima la fabbrica chiedeva solo la prestazione asettica dei lavoratori, oggi da quegli stessi lavoratori si pretende un coinvolgimento emotivo. Perché le emozioni di tutti sono un capitale fantastico, una merce di scambio preziosa.

Come uomini, siamo un problema, in effetti. Perché potenzialmente malati, tendenti all’errore. È chiaro quindi che il bambino fa paura più di tutti poiché rappresenta l’errore stesso, ne è il più importante testimonial (“Non riuscirebbe mai a seguire le regole anti-covid!”). Il bambino è lo scarto, quel margine d’errore che la società del consumo non è riuscita ancora a registrare, a disattivare, se non provando a vendergli cose che il più delle volte non gli interessano.

L’errore ci porta sul cammino dell’accettazione, ma noi non vogliamo più accettare niente, nemmeno la morte “di vecchiaia”: oggi deve avere un altro nome, il nome di una malattia, per illuderci che la vittoria è sempre possibile, soltanto rimandata. L’errore ci porta sul cammino dell’esplorazione e della mutua correzione. Eppure noi non vogliamo correggere proprio niente di noi stessi. L’errore ci induce alla consapevolezza, fa di ognuno di noi una macchina non-banale, un uomo, insomma, che non sempre adotta risposte prevedibili. L’errore ci insegna che può e deve esserci una sicurezza che si basa non già sul preconfezionamento di risposte banali, bensì sulla meraviglia de “il mondo è così e mi sorprende!”.

Come genitori siamo un problema ancora più grosso. Per dirla alla Jean-Paul Sartre, ci siamo immersi in un modo che è vischioso: “Le visqueux”.

Spesso a mia figlia ho detto frasi tipo “se ti fai male non possiamo andare in ospedale.” Ma in parte è questo il messaggio che sentiamo di dover dare. Sei un bambino, smetti di esserlo. Non è così?

Spesso si recrimina ai genitori (per interposto account social) di essere incoscienti, di mettere al mondo figli per poi parcheggiarli a scuola. Ma la scuola è il loro posto, uno dei luoghi tra i non-luoghi rimasti. O forse pensate che li parcheggiamo dai nonni, quei poveretti dei nonni, per farli morire?

La verità è che non stavamo parcheggiando nessuno.

Li stavamo mettendo al loro posto, a scuola per i tempi previsti, e dai nonni per via della loro funzione: quella di allargare i confini della famiglia nucleare. Insomma i nonni, se sopravvissuti, servono e serviranno a strutturare un organismo collettivo, il principale organismo collettivo: la famiglia. Si può dare una famiglia senza Stato, infatti, ma non uno Stato senza famiglie. Dovrebbero aiutare il bambino a sentirsi parte di una comunità più grande, chiaramente. Quella stessa comunità che però ora li esclude.

Ma le chicacchiere stanno a zero perché il vero punto della questione è che i bambini, i genitori, si confrontano con un mondo esterno, soprattutto quello digitale, che in larga parte è composto da adolescenti. Da vecchi narcisi proprio in quanto adolescenti. Sì. I bambini sono bambini in un mondo di adolescenti. E quale adolescente vorrebbe ammettere un bambino all”interno della sua cameretta, nei suoi giochi, nei suoi argomenti?

Quanto emerge da questo periodo di crisi sanitaria è che la società sembra avere paura dei bambini. Nella nostra era tardo postmoderna patiamo questa condanna: siamo arrivati lunghi, non c’è più futuro possibile. E il bambino è un ossimoro dei nostri tempi. Perché nascono? Cosa ce ne facciamo? Non fanno pena tra così tanti adulti?

Ma è comprensibile perché i bambini tolgono la luce agli adolescenti di tutte le età. E sono pericolosi poiché nel “fluido continuo” di immagini in cui ci ritroviamo ci ruberebbero la scena, attirerebbero troppa attenzione. Ci comunicherebbero l’inaccettabile gioia d’esistere. E in fondo non dovremmo proprio esistere: nell’etica ambientalista l’uomo è il cattivo che distrugge il mondo, perché dovrebbe procreare?

Se guardiamo al bambino avremo chiaro che in fondo noi tutti siamo anziani, di tutte le età, dunque prossimi al fine di vita. Una categoria a rischio ipso facto.

Di fronte a un bambino veniamo tutti un po’ meno. Questo è il peso che non possiamo sopportare. Mentre un mondo digitale si autorappresenta, la loro voce, la voce dei bambini è tagliata fuori. Non ci sono bambini “veri” a comunicare, sono una categoria discriminata in partenza. I bambini vengono rappresentati sempre in maniera mediata da un adulto. E questo è discriminatorio, oggi più che mai.

La lotta è impari perché si combatte tra chi possiede un account social e chi non lo possiede. I bambini non lo posseggono. I bambini perdono sempre.

Se aprissimo un account social ai bambini, e facessimo postare le loro parole di vendetta – perché è chiaro che ci verranno a prendere prima o poi – non ci sarebbe storia, o quantomeno avremmo un confronto quasi alla pari.

E vedrete che vinceranno, alla lunga. Perché nel frattempo noi saremo degli inutili morti comunque, al loro cospetto.


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