Paolo Di Paolo: un ritratto a memoria

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Con Paolo Di Paolo ci avevano invitato in uno sperduto paesino del Polesine. Confesso che mi ero perso, al pomeriggio, mentre giravo per cercare la sala civica.

Di Paolo per una ragione o per l’altra lo conoscevo da una vita perché mi arrivò dall’ufficio stampa di Perrone Editore un libro. Quando scrivevo per un mensile molto in voga nei primi anni del XXI secolo chiamato Rolling Stone, arrivava di tutto. Tanti libri li rivendevo alle bancarelle di Via Po a Torino. I bei libri li tenevo. Mi colpì questo aspetto: una piccola casa editrice come Perrone Editore fece esordire lui e Chiara Valerio ma soprattutto, appena nata, aveva già pubblicato un’autrice di lungo corso come Dacia Maraini e allora volevo capire; così lessi Di Paolo e il suo Come un’isola.

A quel punto dovevo saperne di più. Vidi che l’autore aveva già pubblicato un libro con Dacia Maraini per Laterza, inoltre quel libro di Perrone Editore era scritto da un ventenne, cioè lo stesso di Paolo del 2006, e non era un romanzo, e nemmeno un esordio. Parlava di un suo viaggio alla ricerca dei luoghi di Lalla Romano. Come? Uno che aveva 10 anni in meno di me era già stato in giro per Lalla Romano (che i giovani scrittori nemmeno prendevano in considerazione) e aveva fatto un libro con la Maraini per Laterza, senza appartenere a nessun gruppo di scrittori di mia conoscenza? Di Paolo non gravitava attorno a minimum fax. Di Paolo non gravitava attorno a Nuovi Argomenti. Paolo di Paolo non era nei TQ perché era più giovane di loro. Di Paolo non era “nel giro giusto”.

Eppure da meraviglioso nerd della letteratura stava compiendo un viaggio in solitaria. Questa cosa mi piaceva. Seppi successivamente del Premio Calvino e del Campiello Giovani in cui una manciata di anni prima era stato finalista con una raccolta inedita di racconti. Aveva una scrittura leggera, quando faceva il narratore. Anche in quei libri “spurii” di viaggio&colloquio appena citati, scriveva senza lasciare traccia, e ciò poteva avere un valore. Tutto corretto, per carità, ben scritto, educato, impalpabile. Ma al tempo amavo la letteratura che ti fa male, come per esempio Breece Dexter, John Pancake e il suo Trilobiti, oppure William T. Vollmann, e allora certi libri mi sembravano acqua fresca quando invece a me piaceva l’uranio radioattivo, la bomba H, il napalm, la grappa fatta in casa con scorie di etanolo. Così lo presi sottogamba, Di Paolo, ma avevo capito che si stava spendendo. Poco dopo arrivarono i libri su Tabucchi, su Magris, con Nanni Moretti, con La Capria.

L’autore spaziava tra artisti del cinema, del teatro, della letteratura e questa sua attitudine iniziava a configurarsi a tal punto da diventare una cifra autoriale: “Di Paolo è uno scrittore”, pensavo, “che trova nutrimento nella conoscenza e nell’approfondimento di alcune figure suggestive del panorama nazionale”. Era chiaro: attraverso la frequentazione e i colloqui imparava a stare al mondo (nel mondo letterario), imparava a stare sulla pagina, imparava a essere scrittore. Pensai. Bisognava dare atto a Di Paolo dell’unicità del percorso, della tenacia. Sempre in solitaria. Sempre alle prese con “grandi vecchi” delle arti.

Da qualche parte, nella casa dove ho un’altra libreria, devo avere anche il suo Ogni viaggio è un romanzo in cui ha intervistato una ventina di scrittori italiani sul rapporto tra letteratura e viaggi. Poi arrivò anche la televisione. Faceva un programma su Rai 3 con la moglie di Michele Serra. Si Chiamava Pantagruel (il programma, non la moglie). Eppure quando ai vari assessori che mi coinvolgevano per lavoro facevo il suo nome, rispondevano perplessi: Paolo chi? Sapevo il perché: Di Paolo non è un autore che sbraita, Di Paolo non strepita, di Paolo non ha la faccia di uno che va in tv e spacca tutto come piace alle redazioni. Di Paolo è mansueto. Così agli assessori e ai direttori di fondazioni c’è voluta una decina d’anni per capire chi fosse Paolo di Paolo, ma da quel momento ha iniziato a essere invitato ai festival. C’è voluta la sua firma per Repubblica e L’Espresso, c’è voluto il Campiello, lo Strega. C’è voluto tanto, per capire che Paolo di Paolo era Paolo di Paolo. Ma lui è partito presto e se hai vent’anni, i successivi dieci anni sono solo un soffio e ti ritrovi a trent’anni che sei ancora giovanissimo, ma hai dato le paghe agli altri.

È uno di quegli scrittori a rilascio lento. Probabile abbia una passione smodata per tutto ciò che è scrittura, perché nel frattempo ha scritto per il teatro, per i bambini, per la radio. Accumulando diversi registri, diverse discipline. Un secchione, insomma! Finalmente trovo il posto. Paolo di Paolo ancora non era arrivato, ma io trovai il castello. L’incontro si faceva in questa vecchia dimora estense. Un fossato divideva la parte antica del paese da quella più recente. C’era un ponticello in pietra rossa. Mi chiamarono per dirmi che Paolo di Paolo era arrivato. Corsi verso di lui. Di Paolo ha una faccia buona, un leggero strabismo all’occhio destro, che comunque non nasconde con occhiali da sole perenni come fa invece qualche altro scrittore. Per poter fare tutti quei libri “di e con” così come fa Di Paolo, si deve necessariamente essere persone pazienti ed empatiche. Si capisce immediatamente: è un uomo placido, mite ma risoluto.

Se fosse stato un pittore sarebbe stato uno di quei figurativi alla Ottone Rosai. Immagini semplici ma introspettive. Mario Sironi. Immagini del genere, perché Di Paolo non scende nei particolari, evita l’astrattismo, accenna alle forme spesso ovattate. Nella diatriba tra Gruppo 63 e le Liale, Bassani e Cassola lui starebbe dalla parte di questi ultimi. Nessuno sperimentalismo, nessun virtuosismo, ma artigianato e affidabilità. Tutta la sua opera narrativa si colloca nello spazio moraviano, più che in quello pasoliniano. E comunque va avanti come un caterpillar. A marcia ridotta, ma sempre caterpillar è. Un narratore riflessivo, mai precipitoso, mai istintivo. Se digiti su Amazon il suo nome, escono parecchi titoli, ma altrettanti sono fuori catalogo. Soprattutto mi interessa vedere che alla voce “I clienti hanno anche acquistato titoli di”, ritrovi come suggerimento Italo Calvino e Sally Rooney, quella di Persone normali per Einaudi. Secondo l’algoritmo Di Paolo è il giusto connubio tra la scrittura e le storie di un certo periodo calviniano e la scrittrice irlandese definita dalla critica «La Salinger della generazione di snapchat».

Arrivammo nella sala dove avremmo tenuto l’incontro. Io e Di Paolo iniziammo a parlare. Nessuno mi toglierà dalla testa che alcuni suoi libri sono poco più di una sceneggiatura. Ma forse ha ragione lui. Forse conosce i lettori meglio di me e sa che bisogna semplificare, scarnificare, togliere per arrivare all’osso della struttura. Niente parole difficili, niente giri di frase strani. Lingua piana, dialoghi, immagini rassicuranti anche se si raccontano drammi. «Di Paolo riesce a immaginare le esistenze dei protagonisti, dà corpo alle ombre, le modella con la sua scrittura controllata e intima prendendo su di sé la loro genesi.» – così per La Lettura del Corriere della Sera in una recensione al libro Lontano dagli occhi. È il libro in cui si racconta la storia di tre personaggi dove c’è una nascita e un abbandono. La classica storia della quale un lettore poco avveduto direbbe “la lettura scorre veloce”, ma perché nella secolare diatriba tra scrittori caldi e scrittori freddi, lui appartiene a questi ultimi. Nel libro tornano tutti i conti narrativi, è ben fatto secondo la manualistica, ben strutturato. Le storie, nella vita reale, hanno il caso dalla loro. Forzarle significa raccontare favole. C’è pieno di favole per adulti no? In qualche modo questi romanzi di Di Paolo sono favole per adulti dove c’è una Storia 1 e c’è una Storia 2. C’è Genitore 1 e Genitore 2, ci sono gli Anni di Piombo, i gettoni e i telefoni fissi. Un mondo vintage dove, anche nel dramma, i conti tornano. Come se il diavolo facesse pentole e coperchi. Se fossi un direttore editoriale terrei in grande considerazione Paolo di Paolo: pacato, non rompe i coglioni, sicuramente affidabile nel lavoro. Non andrà mai in escandescenza per un pronome tolto o un verbo cambiato. Lo sa che la scrittura è un fatto artigianale. Sai quante volte deve averglielo detto Dacia? Sai quante volte Antonio Debenedetti deve avergli detto che lo studio matto e disperatissimo porta a creare favole per adulti? Qualcuno dice che si raccontano favole ai bambini per farli addormentare e favole agli adulti per farli svegliare, per cui non c’è nulla di trascendentale nel parlare di questo genere di storie e citare la favola come genere letterario.

Paolo di Paolo, con molto garbo, segnava sul quadernetto le domande che gli facevano dal pubblico. Rispose a tutti senza tralasciare nulla. L’incontro era finito, qualcuno aveva acquistato un suo libro portato dai tipi della fondazione. Di Paolo ascoltava tutti quelli che andavano lì a farsi autografare il libro. Che bravo ragazzo, pensavo. A guardarlo lì, Paolo di Paolo, col suo sorriso composto, se fossi stronzo penserei che la sua è una poetica della corrente letteraria riconducibile al “Veltronismo”. Adesso Di Paolo ha appena pubblicato un libro intitolato Svegliarsi negli anni Venti. L’idea di trovare corrispondenze tra gli anni ’20 dello scorso secolo e i nostri primi anni ’20 sembra molto azzeccata. Cerca le vite degli artisti di un tempo, le loro aspettative, i loro sogni, e li mette a confronto con i sogni, le speranze, i progetti dei ragazzi d’oggi. Mentre le decadi durano dieci anni, le epoche possono finire di botto, con uno schianto o per responsabilità di una Pan(info)demia. Questo pare l’assunto. Ne volevo sapere di più. Con questo tarlo dello “svegliarsi” nei nostri anni sono andato oggi stesso al Libraccio in via Verdi qui a Mantova. Mentre vago alla ricerca di Svegliarsi negli anni Venti di Paolo di Paolo, apro Facebook e leggo uno di quei commenti tranchant: «Svegliarsi negli anni venti con il culo parato. Un libro di Paolo di Paolo di Paolo di Paolo di Paolo di Paolo». Non so cosa intendesse, tale Nicola Rinchi, ma è interessante notare come, anche la mansuetudine, possa fare da detonatore per le critiche.

Il libro al Libraccio di Mantova pare inesistente, così chiedo alla commessa: «Avete l’ultimo di Di Paolo?»

«Chi?» mi fa lei, «di Paolo Giordano

See, buonanotte.


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