Assalto al tempio: sintesi del Match con il daimyō Antonio Franchini
L’Accademia dei pugni è tornata, e tutti i lettori d’Italia dovrebbero esultare, perché è dal conflitto costruttivo che si crea il valore.
Nella puntata di venerdì scorso di Fuori Controllo, arbitrata dall’incorruttibile Peter Genito, Giulio Milani e Antonio Franchini sono stati protagonisti di uno scontro a campo aperto che ha fin da subito ricordato le dinamiche del famoso Match tra Moretti e Monicelli del 1977.
I due si studiano fin dai primi secondi, e le battute che si scambiano a proposito della sigla del programma sono un puro gesto di fair play, l’unica stilla di empatia nei settantacinque minuti di puro agonismo che seguono.
Milani parte aggressivo, descrive l’enorme influenza del suo avversario nel mondo editoriale (“sei tu che decidi chi pubblica e quanto pubblica”), e lo accusa pertanto di non essere stato in grado, negli ultimi vent’anni, di allargare il mercato editoriale della narrativa, anzi, di averne accompagnato il collasso e di essersi perso i lettori tra i venti e i quarant’anni e la working class.
Franchini sembra accusare, e nei suoi 3 minuti di risposta (cronometrati artigianalmente da Peter Genito, l’Arbasino della Curva Fiesole) parla dell’esistenza di un direttore marketing, di un direttore commerciale, di altre figure aziendali che validano, cambiano, eliminano le sue proposte.
Purtroppo la risposta suona come un autogol: chiunque occupi un posto di rilievo in una struttura aziendale sa che un manager deve stare sul tema trattato, e il “non è colpa mia”, soprattutto nella struttura anglosassone legata all’accountability, corrisponde a un’ammissione: Franchini è troppo grosso per essere credibile nell’arte di scansarsi, è come se Bill Gates affermasse che non è colpa sua se la nuova versione di Windows non funziona a dovere.
Milani, intascato il primo round, anziché capitalizzare il vantaggio conquistato, decide di portare esempi concreti di interventi di Franchini su singoli autori, lo accusa di aver omologato la narrativa dei suoi autori nel nome del minimalismo, senza apportare nulla di nuovo: parla di Tobino, Pardini, e Paolo Giordano.
Il daimyō si riprende e coglie l’occasione per addormentare la partita: anziché rispondere sulla questione generale, si dedica al fact checking dei casi specifici messi sul tavolo da Milani, e questa è una mossa intelligente, perché diventa la parola di uno contro quella dell’altro: se questa fosse l’analisi di un presidential debate, i punti di questo round spetterebbero stavolta al barbuto Sensei.
Milani, sempre più spiritato dietro il suo calumet elettronico (che non abbiamo mai visto tanto incandescente) sa di aver sulle spalle la responsabilità della fase d’attacco, e torna sul tema dell’omologazione al ribasso: parla della necessità di gruppi di lavoro che sviluppino tecniche innovative, di una fusione tra lo scrittore e l’editor come chiave per la creazione di mondi inesplorati, e di fronte a tanto impeto il daimyō si asserraglia, sostiene che una discussione simile è impossibile in assenza di prove complete e granulari, chiede un saggio critico, al quale rispondere con un altro saggio critico, in sostanza invoca l’assoluzione in mancanza di prove. Si trattasse di una battaglia legale forse la spunterebbe, ma qui si tratta di uno scontro performativo, e il fianco è scoperto.
Di fronte all’ennesima accusa di essere chiuso nella comfort zone, Franchini risponde sfidando lo Svapatore di Massa a sfornare diecimila copie coi suoi metodi di gruppo, e arriva a sostenere che le Neoavanguardie non hanno prodotto nulla di leggibile (salvo poi rimangiarsi l’accusa quando saltano fuori i nomi di Tagliaferri e Balestrini), ma per Milani metterla su questo piano è troppo facile: le piccole realtà non dispongono dei mezzi dell’editoria industriale.
Il momento emblematico di questa fase convulsa del match è l’intervento dinamitardo di Peter Genito, che fa un’invasione di campo invocando l’utopia: Franchini e Milani ammutoliscono perplessi, rifiatano, ringraziano per il diversivo e tornano alla pugna.
L’ultimo affondo è quello sulla creazione di una nuova generazione di intellettuali: secondo Milani, il vecchio non sta lasciando il passo al nuovo, che non ha il coraggio di “uccidere il maestro” – anche Moretti aveva accusato Monicelli allo stesso modo, sostenendo che i registi della sua generazione non avevano allevato i propri successori –, per questo motivo non abbiamo nuove teste capaci di creare una narrazione dissidente e intercettare un nuovo pubblico.
Franchini ribatte che Giordano sta scrivendo cose importanti sulla pandemia, ma sostenere una cosa simile è un passo falso tanto gigantesco (basta aprire un’uscita qualsiasi del Corriere della Sera per accorgersi di quanto addomesticata sia la sua opinione) che il Toshiro Mifune del Vesuvio si corregge tirando in ballo Pennacchi (e Pennacchi ci va molto più a genio, ma Pennacchi ha settant’anni).
L’incontro, con punte di settanta utenti in diretta, raggiunto fin qui da oltre seimila visualizzazioni, va ben oltre i limiti massimi di tempo, e si conclude con una virtuale stretta di mano: l’impressione è che si stia, lentamente, tornando a parlare di letteratura, e questa è una notizia meravigliosa.
Gli Imperdonabili ringraziano di cuore Antonio Franchini per essersi prestato, e si ripromettono di farsi risentire al più presto a suon di fatti.
Per quanti siano interessati nell’assistere all’evolversi di questa epopea, venerdì 19 si terrà il prossimo incontro, durante il quale lo Svapatore di Massa si confronterà con il secondo emissario di Tana delle Tigri, nientemeno che Christian Raimo, maestro nelle arti del cartellonismo, dello schiaffo alla Bud Spencer e del bucatino all’amatriciana.
Luca Fassi nasce a Marcallo con Casone, in provincia di Milano, nel 1982. Laureato in economia, vive e lavora a Saint Joseph, in Michigan. Con Transeuropa ha pubblicato il suo romanzo d’esordio, Termomeccaniche, nel 2019.
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