Christian Raimo e la lunga marcia

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Lo spassoso match con Antonio Franchini aveva settato l’asticella piuttosto in alto, e quello con Christian Raimo si presentava come l’occasione ideale per proseguire sulla strada del conflitto dal quale nasce il valore.

Raimo, nato letterariamente in Minimum Fax, ha fatto parte del gruppo TQ, che una decina di anni fa si è reso protagonista di un attacco alla diligenza del mondo culturale, uno scossone che, dati – e opere – alla mano, ha cambiato i nomi di chi detiene il potere, ma non lo stato di salute della narrativa italiana, sempre più in crisi di vendite, qualità e grado di innovazione.

Da qui parte la prima domanda di Milani, un diretto piuttosto deciso, ma forse un po’ generico: non è che, dopo questo passato “rivoluzionario”, sei diventato uno dei soliti stronzi?

Raimo, incappucciato, non rallenta la sua lunga marcia – che lo porterà secondo i nostri calcoli a coprire circa 7 chilometri e mezzo durante la diretta – e chiede subito il time out: i suoi avatar si raddoppiano, uno gli restituisce un ritorno che lo disturba, ed è costretto a sconnettersi.

Quando ritorna è pronto a ribattere, ma nel giro di pochi minuti è chiaro quale sia il suo approccio. 

Scordatevi i cartelli contro Belpietro, la fuga dallo studio di Agorà dopo il servizio su Tor Pignattara e le sportellate con Sallusti: il piè veloce Christian Raimo ha trovato la pace dei sensi, e si mette a parlare di come passa le sue toste giornate tra impegni politici, artistici e culturali, provando nel suo piccolo a fare la differenza.

La sua parlata è incantatrice e sgusciante, e dopo una manciata di secondi pare impossibile persino ricordarsi cosa gli fosse stato chiesto. La maledizione di Christian “Sam” Raimi disattiva persino la clessidra del solitamente inflessibile Peter Genito, e il primo quarto d’ora si avvolge in uno scambio inconclusivo.

Milani prova ad andare più sullo specifico, e attacca sul fronte del ruolo dell’intellettuale: dice che Raimo, lo stesso che accusava di fascismo Salvini e i soliti noti, durante la pandemia non ha criticato la deriva autoritaria che ha segnato la gestione Covid del governo Conte, ma anche in questo caso il maratoneta di Tor Pignattara schiva senza scomporsi. Lui rifiuta il ruolo di intellettuale engagé, lui è sul territorio: non gli interessa la sospensione della democrazia, gli stanno a cuore la sanità e la scuola, si è chiesto cosa poteva fare in una situazione simile, e, già che c’era, ce lo ha raccontato per altri dieci minuti.

Raimo si disinteressa dell’impatto di quel che racconta sulla audience (anzi, al 57esimo minuto si lascia andare a un’autorecensione: “A volte sono palloso, e pedante, anche stasera sono palloso”), e continua a dribblare su tutto: i suoi ruoli di scrittore, assessore, intellettuale e formatore appaiono e svaniscono alla bisogna, rendendolo difficile da colpire, molto più di Franchini, le cui responsabilità sono, per lo meno, oggettive.

Peter Genito cede per dolore attorno al sessantacinquesimo, e, ironia della sorte, proprio allora inizia il forcing finale, durante il quale si riesce a parlare persino di letteratura ed emergono un paio di punti rilevanti.

Raimo ammette di essere scoraggiato rispetto alla direzione che ha preso il mostro letterario, di avere in un certo senso “mollato” su quel fronte, preferendo la produzione di contenuti utili alla letteratura (infatti non fa più l’editor e produce podcast per gli studenti nell’ambito di un progetto con Treccani). Quest’ultima affermazione ci appare come una sentenza sulla puntata: abbiamo sbagliato ospite, Christian la vede come noi, semplicemente non gliene frega più niente.

Ma Giulio Milani ha l’ultimo asso nella manica, e in pieno recupero attacca con la recensione al Colibrì nel quale Raimo aveva tessuto le lodi di Sandro Veronesi, e il senso è chiaro: se è tutto allo scatafascio, perché poi fai queste marchette?

Raimo accusa il colpo e attiva la modalità turbo democristiana: ammette che Veronesi ha un talento incredibile, che il Colibrì è un ottimo libro, che le accuse di Milani alla scarsissima qualità del Colibrì sono centrate, che il Colibrì avrebbe avuto bisogno di altri tre mesi di lavoro, e che il finale andava segato.

Questo scambio finale ci strappa le prime, vere risate della serata, e resta il rimpianto che non si sia partiti proprio da lì.


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