Il comunista di Vigevano

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A scuola, nei primi anni Ottanta, non ci veniva chiesto “che lavoro fa tuo padre” quanto, piuttosto, “di quale parte della lavorazione della scarpa si occupa”. A Vigevano tutti si davano da fare sulle calzature: orlatrici, tagliatrici, scarnitrici, montatori, inguarnitrici, modellisti, fresatori, conciatori di pelli, ciabattini, garzoni che portavano le scarpe da una parte all’altra della città, negozi all’ingrosso e al minuto, magazzini, scarpe sportive, scarpe da calcio. Il trofeo di atletica si chiamava “Scarpa d’oro”, in castello c’è il Museo della Scarpa, la piazza del mercato si chiama “Piazza calzolaio d’Italia”. La squadra di basket, negli anni gloriosi della serie A, era sponsorizzata dalla Mecap – le scarpe da tennis anni Settanta. L’industria meccanica esisteva, ma venivano prodotte solo macchine per assemblare scarpe. L’industria della gomma era finalizzata alla produzione delle suole.
Il Partito Comunista Italiano toccava il 60% dei consensi elettorali tanto che Armando Cossutta stabilì a Vigevano, per decenni, il “suo” collegio elettorale. 

Tuttavia, la figura dell’operaio à la Cipputi fu poco presente. O per nulla. Cipputi è un operaio consapevole di appartenere a una casta. Dico “casta” perché il personaggio di Altan non ha alcuna pretesa di uscire dalla sua condizione di operaio. Un immobilismo dettato dall’impossibilità socio-economica di cambiare il proprio destino, certamente. Ma un immobilismo vagamente snob, fatto di ombrelli presi in quel posto ma anche di quel fatalismo e di quella noncuranza del futuro che è esclusiva di due categorie umane: i Cipputi e gli artisti.

L’operaio vigevanese medio, invece, aveva una coscienza di classe, per così dire, circoscritta.
Innanzitutto le realtà lavorative erano, nella maggior parte dei casi, aziende a conduzione famigliare o, in ogni caso, piccole o piccolissime imprese. Ed era piuttosto difficile sviluppare una coscienza di classe quando la “classe” era costituita solo dalla sciura Piera che vi lavorava di fianco. Questo, sia ben chiaro, non vuol dire che l’orlatrice-tipo vigevanese (la giuntöra) non percepisse la distanza tra imprenditore e operaio che sta alla base del socialismo. Anzi: quando ci si riferiva al proprio datore di lavoro si usava l’odiosa locuzione “il mio padrone”. Il fatto è che tale distanza veniva elaborata attraverso l’ostilità personale, diretta, nei confronti del proprio “padrone”, appunto. Il massimo della condivisione di idee e disappunti, in ogni caso, avveniva solo all’interno dello stesso condominio, tra vicini di casa, qualche parente. Così la “coscienza di classe” si riduceva a una ben più modesta “coscienza di cortile”.

Proprio perché la maggior parte delle aziende vigevanesi era di piccole o piccolissime dimensioni, la distanza percepita tra dipendente e datore di lavoro era contingente e non, come nel caso di Cipputi, essenziale, archetìpica. Il datore di lavoro, il più delle volte, si ritrovava in quella posizione non in virtù di ricchezze tradizionali di famiglia, oppure straordinarie abilità imprenditoriali o, ancora, grazie a competenze specifiche guadagnate in anni di studio. Il datore di lavoro era tale perché, magari, di punto in bianco, aveva pensato bene di “mettere su la fabbrichetta”. Così, quasi dal nulla, proprio come raccontato da Lucio Mastronardi nello straordinario “Il Maestro di Vigevano“.
Insomma, la città era un pullulare di micro-attività imprenditoriali che richiamavano qualcosa a metà strada tra l’America della corsa all’oro e la Sicilia dei Malavoglia. Chiunque poteva sperare di affrancarsi dalla condizione di operaio sfruttato e diventare, anche lui, “padrone”. Bastava un po’ di coraggio e pochissimi soldi. 
Per tutti questi motivi, il mondo degli operai e quello degli imprenditori non erano due contenitori a tenuta stagna. Una sorta di osmosi animava i passaggi tra le due categorie e questo comportava due conseguenze: la mancanza di una vera e propria coscienza di classe, come detto, e l’alimentazione di un odio viscerale nei confronti del “padrone” quando le cose non andavano bene, proprio perché il datore di lavoro era tale non per casta ma per bizzarria del destino.

L’operaio vigevanese, dicevamo, percepiva come lontano il mondo di Cipputi. Un mondo più raffinato e istituzionalizzato del suo. Un mondo fatto di casse integrazioni (un lusso appannaggio delle grandi realtà industriali), di letture di giornali, di assemblee sindacali, di scioperi, di ferie godute e di lotte per la sicurezza sul posto di lavoro. I sindacati, invece, ai Vigevanesi apparivano lontani, incapaci e poco intenzionati a tutelare le piccole realtà di provincia. Impossibile scioperare, manifestare, rivendicare quando il “padrone” è lì, davanti a te, tutto il santo giorno, e lavora con e come te, primus inter pares.

Gli stilemi e gli stereotipi del comunista italiano venivano amplificati e distorti, un po’ come accade a quelle rielaborazioni della religione Cattolica nelle comunità andine che sono un misto di paganesimo, esoterismo e devozione. Così essere comunista prevedeva alcuni precetti comportamentali e morali che sfociavano in una sorta di decalogo più o meno implicito: 

  • la scala mobile non si tocca
  • Moro è stato ucciso dai Democristiani
  • è naturale tifare per l’U.R.S.S. alle olimpiadi
  • gli Americani saranno pure andati sulla Luna, ma vale di più Gagarin
  • la giustizia non è uguale per tutti e i giudici sono schierati contro i Comunisti (!)
  • se ci sarà una guerra nucleare sarà certamente per colpa degli Americani
  • come fa quel bastardo a guadagnare così tanti soldi?
  • in Russia c’è il paradiso o giù di lì
  • la Piazza Rossa è l’unica al mondo a poter competere con Piazza Ducale

Non era raro, poi, trovare un operaio che si metteva in proprio, che diventava “padrone”, ma che continuava a dirsi comunista, a votare comunista.
Se proprio sentiva di dover appartenere a una classe sociale, l’operaio vigevanese sentiva di far parte di quella grande massa di persone che si danno da fare, che “si tirano su le maniche”, che faticano, che arrivano a casa con la schiena spezzata dal lavoro. Il P.C.I. diventava, così, semplicemente, il partito dei lavoratori “veri”, ovvero quelli che faticano fisicamente. Un impiegato, per esempio, non poteva essere comunista mentre se un “padrone” lavorava facendo andare le mani tutto il giorno al tuo fianco, allora non c’era motivo di dubitare che potesse esserlo.

Ecco, quei comunisti, a Vigevano, sono diventati quasi tutti leghisti.

 

* una prima versione di questo articolo è stata pubblicata come “Fare le scarpe – Fenomenologia dell’operaio di provincia”, Golem L’Indispensabile, n°7, 2006, Federico Motta Editore

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Immagine a corredo del testo per gentile concessione di Diego Barsuglia: nato a Pisa nel 1978, è fotografo professionista dal 2006. Da qualche anno si occupa principalmente di inquinamento, salute e consumo del suolo. I suoi lavori sono stati pubblicati tra gli altri su Sette, Repubblica, l’Espresso, El Mundo, El Paìs, Rai e Sky. 


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