Lettera agli Imperdonabili: senza cultura non c’è rivoluzione

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Ho seguito la nascita e lo sviluppo del gruppo degli Imperdonabili da esterno, per la semplice circostanza che non sono nessuno per poterne fare parte: eviterei di difendere a spada tratta tutti i partecipati, perché quando c’è una rivoluzione si intrufolano anche figure che puntano al loro posto al sole, oppure che soffrono perché non hanno le capacità di arrivare dove vedono altri. Bisogna essere sinceri, come scriveva la Arendt «le rivoluzioni o generano un nuovo sistema o se persistono troppo a lungo sfociano nel terrore». Allora che nuovo sistema sia, migliore del precedente.

In un viaggio a Cuba lungo una via con manifesti del regime c’era una scritta che mi è rimasta nella mente e nel cuore. “Sin educacion non hai revolucion”. Senza cultura non c’è rivoluzione. Se vogliamo cambiare non solo l’editoria ma questo decadente Paese dobbiamo iniziare dalle scuole. Ho scoperto che non tutti i miei collaboratori sanno dove è nato Leopardi. Se non conosco Leopardi e non so di Recanati non ho nemmeno il desiderio di visitare una delle zone più belle d’Italia. Se noi stessi non promuoviamo la cultura, l’arte e tutto ciò di cui immeritatamente siamo ricchi, non promuoveremo nemmeno il desiderio di andare a conoscere.

Sempre parlando con i miei collaboratori ho avuto modo di scoprire che non leggono poesie perché non le capiscono. Ci sono qui due fenomeni, secondo me. Nessuno ha mai spiegato loro che la poesia non è solo una noiosa analisi da antologia scolastica, ma è sentimenti, pulsioni, ragionamenti, fuochi, voci, sogni, esperienze che ognuno vive in quanto essere umano. Le poesie parlano di noi e a noi, ci permettono di vivere a un livello differente i fatti quotidiani. Il secondo fenomeno è che la poesia ha deciso di ghettizzarsi ancora di più e si rifiuta di parlare della vita. Leggo poeti capaci, abili nel metro e nelle parole, parlare di niente. Ora, va bene essere albatros, ma se non vivi, soffri, gioisci, nella vita di tutti i giorni, come gli altri, non puoi avere stimoli per creare davvero, non puoi parlare con i versi.

Immagino l’editoria sia da migliorare e non voglio però colpevolizzare nessuno perché ho un’attività anch’io e alla fine i conti devono tornare. Non voglio nemmeno addentrarmi in un campo che non mi appartiene fino in fondo, ognuno dovrebbe parlare di ciò che conosce. Mi chiedo questo, però: davvero il settore è così mal ridotto da non poter più investire nella ricerca? Fa comodo il calciatore, l’attrice, l’influencer di oggi e il non so cosa di domani, che fanno vendere libri, ma davvero non si possono cercare anche nuovi talenti? Il pubblico lo create voi, lo abituate voi. Se sento persone colte, lettori seriali, che leggendo ciò che proponete alla fine dicono «un libro così potrei scriverlo anch’io», non vi state facendo autogol? A forza di abbassare il livello, annoiare i lettori, perdere chi è vostro cliente, non vi state suicidando? Il suicidio dell’editoria è il suicidio della cultura di un Paese. È tempo di rilanciare.

Qualunque forma di scrittura, per essere elevata ad “arte”, deve superare una valutazione più o meno conscia di “qualità”. La qualità è difficile da misurare perché non ha numeri e perciò necessita di spiegazioni: da qui nascono opinioni, confronti, dibattiti. Non sono un critico e nemmeno un editore, non saprei fare nessuno di quei lavori, sono un lettore e non entro nel merito della questione. So però che l’industria si misura con la “quantità”, con i numeri, con i grafici. È evidente per chiunque che la “qualità” non può essere misurata con la “quantità”, sono due concetti differenti.

Se la scrittura è un’arte non sempre ho il libro giusto da pubblicare, altrimenti tutto diventa mestiere. In fondo Cristina Campo ha scritto poco perché poche cose possono essere degne di essere pubblicate.

Ho apprezzato il pezzo di Francesca Serragnoli nel blog di Veronica Tomassini perché ha centrato il vero intelocutore di un’opera: io voglio rendere conto solo alla poesia, al mio amore per lei, al foglio bianco che potrebbe restare tale ancora a lungo.

Chi vorrà leggermi sarà il benvenuto perché non ho un territorio da difendere .

Per quanto mi riguarda, andrò avanti a muso duro, alla Bartoli.

Imperdonabili fino alla fine, non per distruggere, non per cacciare, per migliorare.

Il foglio bianco ci attende.

*** *** ***

Fotografia a corredo di Michela Bin, per gentile concessione dell’autrice. Nata a Trieste nel 1972, Michela Bin è laureata in archeologia medievale presso l’Università di Trieste; appassionata di fotografia da sempre, ha approfondito le sue conoscenze, tra gli altri, con Graziano Perotti.


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