Come ho vissuto la protesta degli avvocati a Milano contro la riforma della prescrizione

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Se non sbaglio andò in onda fino a metà degli anni ottanta. In casa mia non si perdevano una puntata: erano incantati dal gioco delle invenzioni. Come dimenticare il tranviere di Milano che voleva spianare una montagna per liberare la pianura padana dallo smog? All’epoca ero un piccolo spettatore passivo, alto sì e no un metro. Per guardare dalla finestra dovevo salire su una sedia: la mia preferita era di legno arancione e a furia di spingerla contro il muro aveva la vernice scrostata. Quando nevicava mi precipitavo sul mio trono, spostavo la tenda e inchiodavo gli occhi sulla pioggia di nocciolini bianchi che perforava il cielo.

L’arresto di Enzo Tortora aveva scatenato un’ondata di proteste, oltre i confini nazionali. Mio nonno, un uomo di poche parole, aveva sempre sostenuto che fosse innocente. Da parte mia sarei bugiardo se dicessi che la sua odissea mi aveva commosso. Avevo poco più di dieci anni e a quell’età, se ti dicono che la giustizia ha sbagliato, annuisci e basta. Non ti poni delle domande. O meglio, se devo essere proprio sincero avrei voluto chiedere alcune cose che mi urgevano dentro. Chi aveva dato da mangiare al pappagallo mentre il suo padrone era in carcere? Era stato arrestato anche lui? Con quale accusa? 

La sparata del Guardasigilli negli studi di Otto e Mezzo mi ha fatto ripensare al pennuto verde dalla fronte gialla che nessuno riusciva a far cantare: «Gli innocenti non vanno mai in carcere.» Frase infelice, certo, ma non quanto quella che ha provocato l’ira dei familiari di Tortora: «Non c’è nulla di scandaloso se un presunto innocente è in carcere.» Così il direttore del Fatto quotidiano. Non so cosa avrei fatto al posto suo, non voglio nemmeno pensarci, ma Gaia Tortora non si è fatta tanti scrupoli: «Chiedo al signor Marco Travaglio di ripetere in pubblico ciò che mi sta scrivendo via SMS e che custodirò gelosamente. Perché al peggio non c’è mai fine.»

Ognuno pensi ciò che vuole, ma secondo la giornalista Annalisa Cuzzocrea, dal 1992 al 2018 ben ventisettemila persone sono state risarcite dallo Stato per ingiusta detenzione. Il dato è in linea con quanto dichiarato dal Presidente del Senato a margine del convegno su “Le vittime del processo ingiusto”: «Dal 1992 ad oggi sono oltre ventiseimila, quasi mille all’anno, gli individui che hanno subito un’illegittima restrizione della propria libertà personale, prima di essere definitivamente assolti con sentenza passata in giudicato.» E ha poi aggiunto che i dati trovano ulteriore riscontro anche sull’ultima relazione sull’applicazione delle misure cautelari personali, elaborata dal Ministero della Giustizia. «Sono numeri pesanti che non possono più essere sottovalutati. E che ci obbligano a una necessaria riflessione sull’efficacia degli strumenti normativi finora predisposti, per tutelare il massimo rispetto del diritto alla libertà personale, preservare il nostro sistema dal rischio di errori, suscettibili di produrre conseguenze nefaste sulla vita degli imputati e le loro famiglie. Dietro ogni caso di errore giudiziario o ingiusta detenzione c’è un dramma umano.»

Non credevo che fossero così tanti i casi di malagiustizia. Chissà cosa ne pensava il collega penalista che mi stava aspettando fuori dall’aula magna per la cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario. Antonio era sempre informato su tutto e in grado di sostenere una discussione con chiunque.

«Sbrigati, sei in ritardo!» Aveva i capelli pieni di gel e un trolley color acciaio. 

«Sei in partenza?»

«Non fare domande stupide,» mi fece segno di seguirlo. 

Per lui erano tutti stupidi. Le segretarie lo erano, i giudici pure, i colleghi non ne parliamo. Era circondato da una massa di ignoranti, che doveva solo tacere.

Appena entrai in aula vidi un drappello di avvocati vicino alla balaustra: reggevano alcuni cartelli con gli articoli della Costituzione. Altri facevano il gesto delle manette.

«Perché mi hai fatto venire qui?» 

Non mi aveva spiegato niente: vieni e vedrai. Il fatto è che gli dovevo così tanti favori che non mi andava di dargli buca.

«È un momento cruciale per la nostra democrazia. Certo, tu non lo capisci, ma non importa,» sollevò il mento e inclinò appena la testa. «Hai ascoltato l’intervista di Sciascia?» 

Nel suo delirio di onnipotenza mi aveva pure assegnato dei compiti, come se non avessi niente da fare. «Ho iniziato a guardare il video poi…»

«Sei come tutti gli altri, uno stupido ingenuo,» increspò le sopracciglia con aria preoccupata. «Secondo Sciascia la Costituzione non esiste più, si è dissolta.» In un’intervista del 1978, lo scrittore siciliano aveva svelato che i tre poteri fondamentali dello Stato, anziché restare indipendenti, separati, si erano riuniti nella partitocrazia: i partiti decidevano delle leggi, ma anche come farle applicare dai giudici.

«Voi civilisti siete il cancro della categoria,» posò a terra la valigetta. Poi armeggiò con la combinazione e fece scattare la serratura.

Questa storia della rivalità tra civilisti e penalisti esiste da sempre, ma con me non ha mai funzionato. Io faccio il mio, tu fai il tuo. 

Antonio si sistemò la cravatta gialla, si passò più volte una mano dietro la nuca: «Stammi a sentire, sono in gioco le libertà di tutti i cittadini.»

«Correggimi se sbaglio, la riforma Bonafede prevede lo stop della prescrizione dopo la sentenza di primo grado, sia in ipotesi di assoluzione che di condanna. Ecco, su questo punto mi trovo perfettamente d’accordo.» Il desiderio del popolo era impedire che i delinquenti facessero affidamento sulla disorganizzazione del sistema e quindi sulla chiusura del procedimento per decorsa prescrizione.

«Hai colto nel segno, il nodo cruciale sono i tempi della giustizia e sotto questo aspetto la riforma non ha fatto nulla. Anzi, favorisce addirittura la lentezza dei processi successivi a quello di primo grado.» A suo dire dovevo fidarmi: era stata varata, per l’ennesima volta, una legge basata sull’emergenza. «L’intervento del legislatore è dettato da una non troppo celata volontà di vendetta sociale.» 

«Abolendo la prescrizione non si garantisce la punibilità dei colpevoli?» Oltretutto il sistema è sempre stato iniquo: le persone facoltose possono permettersi avvocati agguerriti e combattivi, che tirano ad allungare la durata dei processi.

«Ma porca miseria, allora non vuoi proprio capire!» Si tolse la giacca e slacciò la cravatta con un gesto rabbioso. «In questo modo viene violato il principio della ragionevole durata del processo.» Abolire un istituto di civiltà giuridica, come la prescrizione, significava eliminare l’unico rimedio a disposizione del cittadino contro gli abusi della magistratura.

Non ci avevo pensato.

Ma non era finita qui: secondo Antonio la riforma poneva l’imputato nell’infelice condizione di eterno imputato, sempre e comunque giudicabile, scommettendo sulla sua colpevolezza. In pratica, chiunque avrebbe vissuto con l’angoscia di non essere in grado di programmare la propria esistenza, di dover tirare avanti in uno stato di incertezza sine die. «Siamo sicuri che la cura non si riveli peggiore del male?»

Mi sentivo confuso. 

«Non stare lì a guardarmi, datti da fare,» e iniziò a distribuire dei volantini alle prime file di persone che aveva intorno. Sembrava davvero convinto di quanto faceva. 

Mentre lo osservavo, con una sorta di attrazione magnetica, vidi entrare da una porta laterale Piercamillo Davigo. Aveva l’aria tesa e le labbra serrate.

Partì una bordata di fischi, accompagnata dall’invito a vergognarsi: un urlo ripetuto, rovente.

Antonio mi afferrò per un braccio e mi trascinò via senza spiegarmi il perché. 

Anche gli altri avvocati abbandonarono l’aula.

«Siete matti?»

Quello sventolò un foglio, spalancò gli occhi: «È inammissibile che un membro del Consiglio Superiore della Magistratura interferisca nelle scelte legislative.» Si riferiva a un’intervista rilasciata da Davigo, nella quale il magistrato pareva avesse accusato gli avvocati di contribuire alla lentezza dei processi impugnando le sentenze anche quando non necessario. 

Non sapevo più cosa dire. 

Mi voltai e incrociai lo sguardo di una donna sulla cinquantina, con i capelli rasati e un giaccone nero. «Perché non volete cambiare il sistema?» 

La donna aveva la pelle pallida, un incarnato chiaro come le scarpe che indossava: «Sapete cosa significa essere stuprati? Sapete cosa significa essere legati a un letto per un mese?» Rovistò nel portafogli, poi tirò fuori una fotografia logora, quasi ingiallita. «Avevo cinque anni!»

Antonio si sfregò il collo, io invece deglutii, cercando di non far rumore.

«E soprattutto, sapete come andò il processo?» I suoi occhi si fecero lucidi e il labbro inferiore le iniziò a tremare. «Reato prescritto, non luogo a procedere.»

Non aggiunse altro, ma quelle parole rimbombarono nel corridoio, per poi piombarmi in testa, dove depositarono un veleno potente.

*** *** ***

Fotografia di Adriano Padua tratta dalla serie “Il quarto stato”, per gentile concessione dell’autore. Adriano Padua è nato a Ragusa nel 1978. Ha pubblicato le seguenti opere: Le Parole Cadute (d’if, 2009), Alfabeto provvisorio delle cose (Arcipelago, 2010), La presenza del vedere (Polimata, 2010), Schema (d’if, 2012), Still Life (Miraggi, 2017). Come performer ha partecipato ai maggiori festival e appuntamenti nazionali di poesia (Romapoesia, Parmapoesia, Absolute Poetry di Monfalcone, Festival della poesia civile di Vercelli, Poesia Presente di Milano, Notte Bianca di Roma, RicercaBo di Bologna). Laureato in sociologia della letteratura, ex giornalista, lavora nel campo della comunicazione e degli eventi culturali. Esegue i suoi testi con la collaborazione di dj e musicisti. Si diletta di fotografia.


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