Sanremo e l’imperdonabile nostalgia del giorno dopo

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Parliamoci chiaro, a Sanremo nessuno è antisistema, perché a Sanremo un vero ribelle non ci va. Chiunque accetti di partecipare al Festival è già completamente integrato nel meccanismo. E fosse anche il demonio in persona, il giorno dopo sarà già a farsi fare i grattini nel salotto di zia Mara Venier. Lo dimostra Junior Cally uber alles, che dopo settimane di inutili polemiche si toglie la maschera e rivela una canzone tanto innocua quanto trascurabile, e una faccia da venditore di assicurazioni. Alla resa dei conti, non è il cattivo né l’eroe.

Quest’anno più che mai, il solo eroe è lo spettatore: Sanremo è stata una vera e propria prova di resistenza fisica. Un festival obeso e grondante, un po’ come quei pranzi di matrimonio pieni di troppe portate inutili, dove alle quattro del pomeriggio, quando già trabocchi di cibo e ti sei tolto le scarpe sotto il tavolo, arriva l’arrosto al barolo. In modo analogo, sul palco sono arrivati un bis e un tris di Tiziano Ferro, troppe porzioni di Fiorello e innumerevoli contorni di troppo.

Quando poi le forze erano ormai allo stremo è comparso Biagio Antonacci, e all’una di notte, dopo venti esibizioni, Biagio Antonacci è quasi istigazione al coma. Qualcuno dovrebbe dire agli organizzatori che la gente normale ha una vita e un lavoro, e soprattutto che la privazione di sonno è considerata tortura in tutti i paesi civili. D’altra parte, pare che allungare il brodo all’estremo faccia alzare i numeri dello share, quindi chi se ne importa della salute del povero spettatore?

Poi certo, la tv si può spegnere, viviamo nell’illusione del libero arbitrio e chi è causa del suo mal pianga sé stesso: così lo spettatore irriducibile, fenomeno per nulla raro, in preda a qualche forma di espiazione arriverà fino in fondo con piacere masochistico, e alla fine in qualche modo la tenacia verrà premiata, perché anche in questa edizione, pur in un contesto in gran parte falso, ci sono sprazzi di verità.

C’è verità nei luoghi più impensati, come sul viso di Elettra Lamborghini, stanco per la fatica del voler a tutti i costi saper fare qualcosa, essere qualcosa. E quando dopo l’eliminazione di Morgan esclama «ora l’ultima sono io, che vita di merda!», il suo candore è teneramente imperdonabile. È prova che la vita non è facile, nemmeno quando porti il nome di un’auto di lusso e il festival te lo potresti comprare. Così come non deve essere facile per Paolo Jannacci vedersi allo specchio ogni giorno il volto di quel genio di suo padre, anche se lo porta con dolcezza, dignità, perfino talento.

C’è verità in Achillo Lauro, che si spoglia come San Francesco e si riveste da Regina Tudor. Può sembrare anche lui un finto ribelle, e in parte lo è: l’ambiguità sessuale della rock star è storia vecchia e il gender fluid è ormai pienamente nel mainstream, almeno per quanto riguarda gli ambienti artistici. Nelle fabbriche, nelle caserme, a volte negli uffici, la storia però è diversa, e tra il pubblico generalista e attempato di Sanremo qualcuno potrà ancora scandalizzarsi, oppure sentirsi emancipato perché non si scandalizza.

Eppure in Lauro si coglie una nuova sfumatura: la sua non è una rivendicazione omosessuale o transgender, bensì della propria parte femminile. Quando canta Gli uomini non cambiano insieme ad Annalisa, non lo fa da uomo colpevole, ma da vittima, bullizzato da quegli stessi aspetti deteriori della mascolinità che opprimono le donne: il branco, la violenza, la sessualità anaffettiva.

Violenza che troviamo anche ora, nelle battute sulle dimensioni del suo pene, da parte, e questo è inquietante, di entrambi i sessi. Verrebbe da dire a coloro che pretendono di misurare la virilità osservando la piega di un costume, ma lo sapete voi come funziona un uomo? Avete contezza del concetto di riposo ed erezione? Ecco, di fronte a tanta miseria, il “me ne frego” di Achille diventa un vero grido di libertà.

Cosa di lui è imperdonabile? Forse proprio la remota possibilità che sia etero, e il fatto che sembra piacere alle donne. Perché il gay ormai è storia vecchia, un nuovo modello maschile forse inquieta di più. Ma vorrei rassicurare i sedicenti “veri maschi”: la maggior parte delle donne non è davvero attratta da un uomo con lustrini e rimmel. Quella è solo una voglia di empatia e dolcezza, l’illusione momentanea di provenire dallo stesso pianeta.

C’è verità in Morgan, che va sempre alla guerra per perderla. E forse pure in Bugo, che all’inizio ti chiedi «e chi è?»: poi magari ti viene il dubbio d’esser tu l’ignorante e scopri che ha un passato artistico da sottovalutato di tutto rispetto. Però ha perso una grande opportunità: rispondere all’attacco di Morgan con altrettanti versi musicali, in una tenzone improvvisata, e diventare immortale nel trash. Sono occasioni che non tornano.

Ora Morgan attacca il sistema, parla di mobbing da parte dei manager, e forse in principio aveva ragione, ma che importa? Anche quando ha ragione, Morgan è abilissimo nel passare dalla parte del torto. È un vero Imperdonabile, di quelli tormentati e ingovernabili. Di quelli che in nessuna azienda passerebbero il periodo di prova, perché la prima regola è che se litighi con il collega gli parli in privato, non all’assemblea generale. Litiga persino con chi vuole aiutarlo, è accentratore ma poi lascia le cose a metà, mette incinte donne a casaccio e non mantiene i figli, cade e ricade nella droga. Eppure ha talento. Genio forse no, di canzoni davvero belle ne avrà scritte massimo due o tre, ma è un grande divulgatore e il suo amore per la musica è commovente. È un coglione, insomma, ma di talento. Il tipico artista del tutto inaffidabile, che ha il suo fascino nei sogni, ma è una vera disgrazia se lo incontri nella realtà.

Ora faranno pace Bugo e Morgan, quando avranno finito di rincorrersi per tutti i talk show spazzatura? Francamente, ce ne infischiamo. Forse sono i nostri Verlaine e Rimbaud, i nostri Gauguin e Van Gogh. Forse. Ma quelli sono grandi artisti consacrati dalla storia, quindi li amiamo di più, se non altro perché sono morti e non possono romperci le gonadi dalla D’Urso.

C’è verità in Rancore, che invece è un Imperdonabile che ce la fa. Certo, non ce la fa a vincere Sanremo, nessun Imperdonabile potrebbe, ma lascia il suo segno. Il testo di Eden è un esempio di scrittura netta, incisiva, potente, e quando Rancore sale sul palco c’è solo lui, intenso, minimale, senza lustrini né fronzoli: un semplice berretto, a volte un cappuccio, e due occhi che tagliano come le sue parole.

La canzone può non essere capita subito, è un rap molto veloce: d’altra parte, quando in tre minuti racconti la storia del mondo, è d’uopo andare in fretta. C’è tutto in Eden, politica e mitologia, poesia e scienza. Ma non è un polpettone: è un cesello, un codice miniato, un poema epico in linguaggio binario. Nel cadere di una mela dal ramo narra la storia dell’uomo, dal paradiso terreste a Newton ad Alan Turing, da Paride a Magritte alla Apple di Steve Jobs. Con i nuovi serpenti in agguato, tra le meraviglie del progresso. Rancore è una scintilla nella generale mediocrità.

Una delle poche, eppure Sanremo sarà brutto finché si vuole, ma quasi tutti lo guardiamo lo stesso, anzi, forse con maggior gusto. Perché negli anni si è arricchito di tradizioni e ricordi, ed è uno dei pochi momenti di catarsi collettiva del paese. Ora ancor di più, da quando l’ironia scorre sui social e si sta tutti pronti, lì, ai post di commentamento, alla faccia dei nuovi Savonarola, che inveendo contro chi guarda il festival, alla fine, commentano più degli altri.

E persino dal vivo, cosa sempre più rara, in occasione di Sanremo ci si ritrova con gli amici. Dopo la finale i gruppi di ascolto casalinghi si sciolgono a notte fonda, con gli occhi lucidi per il sonno e le risate. Sono le tre del mattino quando si torna a casa: sembra quasi quando da ragazzi, dopo la discoteca, si andava a prendere il bombolone dal fornaio. Qualcuno lo propone pure, ma sarebbe una nostalgia fuori tempo massimo. Perché la fine di un altro Sanremo, più del Capodanno, più del compleanno, ti fa sentire soprattutto questo, che un altro anno è passato.

*** *** ***

Fotografia a corredo di Michela Bin, per gentile concessione dell’autrice. Nata a Trieste nel 1972, Michela Bin è laureata in archeologia medievale presso l’Università di Trieste; appassionata di fotografia da sempre, ha approfondito le sue conoscenze, tra gli altri, con Graziano Perotti.


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