Lontano dagli occhi di Paolo Di Paolo: una penna solida e sensibile ingabbiata nella favola

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Se qualcuno avesse dubbi sulle capacità di questo autore in fascia protetta, ben recensito e introdotto, sgombriamoli subito: Paolo Di Paolo sa scrivere. 

In Lontano dagli occhi non troverete orribili narratori onniscienti in stile Colibrì, inni edificanti e politically correct, né aperture e chiusure di capitolo da Smemoranda, altra passione degli Youtuber prestati all’editoria (e perfino premiati, alle volte).

Di Paolo ha una discreta fiducia nel suo pubblico: gli mostra il giusto per tenerlo a bordo senza tentare di istruirlo a ogni costo.

La padronanza del dettato è convincente, il romanzo si lascia leggere con il suo stile leggero, dove la scrittura scompare a vantaggio della storia, sulla quale – purtroppo –, dovremo tornare tra un attimo.

Le tre vicende che si alternano per la quasi totalità della narrazione hanno come sfondo i primi anni ottanta, e la scelta degli episodi di cronaca o di costume da legare ai momenti chiave della narrazione – quarantennale della carriera di Andreotti, scudetto della Roma, scomparsa di Emanuela Orlandi –, è felice e crea atmosfera.

A fare da contraltare a tutte queste note positive, tuttavia, c’è una grave mancanza: le storie narrate in Lontano dagli occhi non hanno tensione narrativa.

A parere di chi scrive, i motivi sono due:

  • La povertà di scarti narrativi capaci di far salire il lettore sull’auspicabile giostra emotiva; 
  • La rinuncia alla ricerca del vero realismo, che è figlio del paradosso, dell’iperbole, del dettaglio incomprensibile e unico, del superamento dello stereotipo.

Di Paolo ci racconta la storia di tre ragazze alle prese con una gravidanza indesiderata.

La scelta dei profili è fatta ad arte per coprire lo stereotipo della base demografica romana dell’epoca: abbiamo la ragazzina di buona famiglia ingravidata dal borgataro, la giornalista trentenne sedotta e abbandonata da un intellettuale “cinico e baro”, la punkabbestia alle prese con un ragazzo di buon cuore.

Nessuno dei personaggi mi è sembrato reale, anzi, il gioco dell’autore mi è apparso chiaro fin dall’inizio: le sei marionette gli servono per lanciare il suo messaggio, e questo è un peccato narrativo mortale; asservire i personaggi ai propri scopi narrativi equivale a soffocarli, a togliere loro ogni possibilità di prenderci in contropiede, come fa invece la realtà umana. E nonostante lo sforzo dell’autore si percepisca, non riusciamo mai a liberarci fino in fondo dalla sensazione di trovarci davanti alla sceneggiatura di uno dei polpettoni di Muccino, ma senza la nevrastenia di Stefano Accorsi o il parossismo delle crisi di gruppo a salvarne la tensione.

Di Paolo non crede di aver bisogno di colpi di scena e si concentra nella descrizione di stati d’animo, fisici e mentali: per quanto se la cavi egregiamente con lo sfondo e l’atmosfera – la ragazza che scappa di casa e rimane coinvolta nei festeggiamenti dello scudetto è un affresco pittoresco e memorabile –, i personaggi sono pervasi di una familiarità che li rende inoffensivi, prevedibili, ed è per questo che ognuno dei tre filoni narrativi non può che finire come ci si aspettava dall’inizio: senza necessità di lettura.

E sì che gli spunti stilistici ci sono: la parte conclusiva del romanzo presenta un cambio di passo davvero notevole, lanciandosi nella metanarrativa: l’autore compie finalmente uno scarto e si rivolge ai vari protagonisti con un misto di indulgenza e amarezza. Una trovata a mio avviso efficace, dato che l’autore non si identifica come narratore onnisciente, togliendo mistero, ma si cala nella narrazione rivelandoci di esserne, a suo modo, un personaggio. L’espediente, come ci insegna l’autofiction, conferisce un’illusione di autenticità alla vicenda.

Ma non basta per salvare le centosettanta pagine precedenti, dove accade – davvero –, troppo poco.

In conclusione, questo libro mi pare indicato per chi cerca una storia – o meglio, una descrizione –, dolce/amara e indulgente, ben scritta, ma ingabbiata senza speranza nel regno della favola. L’ennesima.

*** *** ***

Immagine a corredo del testo per gentile concessione di Diego Barsuglia: nato a Pisa nel 1978, è fotografo professionista dal 2006. Da qualche anno si occupa principalmente di inquinamento, salute e consumo del suolo. I suoi lavori sono stati pubblicati tra gli altri su Sette, Repubblica, l’Espresso, El Mundo, El Paìs, Rai e Sky. 


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