Il racconto vincitore del contest su Leggo Letteratura Contemporanea

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Abbiamo il vincitore!
L’incursione del movimento imperdonabile nel sonnolento mondo dell’italica letteratura si è conclusa, per ora.
Il contest #anonimaracconti sulla pagina Facebook Leggo Letteratura Contemporanea è stato vinto da “Legittima difesa” di autore anonimo.

Autore: kghfbr+7m6wmnzxwwnz8@guerrillamail.com
Titolo: Legittima difesa

Non volevo fare la fine di mio fratello morto ammazzato o quella di mio padre diventato vomito sull’asfalto. Volevo uscire da quel basso che puzzava di pesce e mare mosso. E pure se malediceva il giorno che l’aveva messo al mondo per tutti i guai che combinava e i dispiaceri che le dava, mia madre si disperò per quel figlio camorrista trovato ucciso con un topo in bocca. Poi ho capito che certi dolori non si seppelliscono mai, la furia resta nel sangue e aspetta. E come un rigurgito la furia mia è tornata a prendersi il posto suo. È stato come vedere un film al contrario. La valigia pesante trascinata sotto al sole, mia madre che si china per tirarmi su un calzino scivolato fino alla caviglia perché allora avevo le gambe secche. «Per un poco te ne starai con Filomena e Filippo, fai il bravo e studia, mi raccomando» annuisco ma vorrei ancorarmi alle sue cosce grosse e non lasciarla andare. Mi molla con quei due spaventapasseri che puzzavano di sterco: «È soltanto per il bene tuo». Parlava senza una lacrima. E la pellicola va ancora indietro, il vicolo in cui sono nato, la stazione, poi il fischio del capotreno, e io con la bocca aperta che guardo fuori dal finestrino, io che non ero mai salito su un treno e non faccio in tempo a contare gli alberi e le case che subito ci stanno altri alberi e altre case da contare. Ma la pellicola s’inceppa e pure la vita mia si è inceppata.
È colpa delle vertigini. Secondo il medico bastano delle pillole: «Dieci giorni con la Proclorperazina e vedrà che il vortice si arresta. Ci rivediamo per il controllo». Ma lui non m’ascolta: «La pellicola, la pellicola s’è inceppata e tutto va a ritroso». Niente, non alza la testa e continua a scrivere sul foglio con un alfabeto indecifrabile. Centocinquanta euro, l’obolo per la sua scienza.
Mia madre la trovarono morta un mese dopo che m’aveva abbandonato. Crepacuore, dissero. Così Filomena e Filippo mi adottarono pure sulle carte e diventai un bambino nuovo sopra quello vecchio. Filippo ci aprì una bottiglia di spumante, era diventato padre per la prima volta. Filomena corse dalla sarta del paese per farmi cucire l’abito per la prima comunione. Ho studiato, come promesso, e quando mi sono laureato Filomena s’è commossa come una mamma vera. Ho avuto delle donne ma nessuna presa in moglie, le donne sono troppo complicate. Vampiri con la cipria.
«Lei deve collaborare!» È stizzito il medico il giorno del controllo, la cura da lui prescritta non ha fermato le vertigini, la mia condizione è peggiorata. «Senza il suo aiuto nessuna terapia farà effetto, deve avere fiducia, deve crederci». Ma io ho ancora le vertigini e quella furia che mi sale dalle viscere e fa inceppare tutto quanto. Baudelaire, lui c’è morto di vertigini. S’affacciava nudo dal balcone e urlava: lo sentite passare il vento dell’ala dell’imbecillità? Avvertiva Parigi dell’imminente catastrofe. La madre l’accolse nel suo ventre e la storia ha fatto il resto. Io non sono pronto per morire.
Mi rivolgo a uno specialista, lo chiamano “il santone”. L’appuntamento è per le cinque del pomeriggio, la luce d’autunno allunga l’ombra del mio passo oscillante. Una donna apre la porta: «Si accomodi, la sta aspettando» e indica un’ampia stanza poco illuminata. Orologi di varie forme e grandezze appesi alle pareti producono un irritante ticchettio. Mi viene incontro un uomo calvo, basso: «Prego, si sieda». È gentile, buffo nelle movenze. Gli parlo delle vertigini, della pellicola che s’inceppa, del mare mosso, di mia madre, della furia che sale, tutto. Non scrive, questo, ascolta e guarda fuori dalla finestra, poi prende a citare dei filosofi, Pascal è il suo preferito. Legittima difesa, sentenzia. Non capisco. «Le sue vertigini sono di natura psicogena. È ritornato su quel treno a contare alberi e case, case e alberi». Continuo a non capire, ma la sua diagnosi non prevede repliche. All’angolo della bocca ha una smorfia di piacere. Irritante. I miei occhi nei suoi, vacillo, la stanza inizia a ruotare, stringo i braccioli della sedia per non cadere. Appena mi riprendo, lui mi congeda. L’obolo per la scienza questa volta è onesto e in dote ricevo una floscia stretta di mano e un biglietto: data e ora del prossimo appuntamento.
Mio padre lavorava al porto. Una vigilia di Natale un grosso container gli cadde sulla testa. Avevo cinque anni. Morì sul colpo, senza nemmeno il tempo di un pensiero. La sua faccia neanche la ricordo. Quando sollevarono il container non gli trovarono nemmeno un osso sano. Nella sua bara vuota mia madre ci mise soltanto il vestito buono dello sposalizio e un flaconcino di vetro con dentro uno sputo di cervello. Soffriva di vertigini.


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