La vita non ha prezzo? Una riflessione sul costo della vita e della salute in dialogo con Walter Siti

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Dopo una lunga fase di minimizzazione del rischio – dal 31 gennaio, giorno in cui Conte ha firmato lo stato di emergenza nazionale, al primo decreto di “lockdown” dell’8 marzo – l’Italia, presto seguita da molti altri Paesi, ha scelto la via del «salviamoli tutti», «la salute prima di tutto»: come si è prodotto, ammesso che sia vero, un cambio di paradigma così inconsueto nel sistema capitalistico globale dove “tutto ha un prezzo”?

Personalmente, mi sono posto subito questa domanda perché la percezione del valore di una vita ha sempre avuto, fin qui, un andamento legato a fattori tutt’altro che morali.

Mi risuonavano nella testa, per esempio, le riflessioni di Walter Siti in Pagare o non pagare. Poiché queste pagine sono state scritte nel 2018, nel pieno dell’emergenza precedente – quella sui costi dell’immigrazione sobillata da Salvini e dalla Lega –, credo possa tornare utile rileggerle oggi senza passare per egoisti al soldo di Confindustria, cinici sostenitori di un’eugenetica sociale o “negazionisti” del tutto insensibili al dolore per la pardita di anziani, medici, soccorritori.

«Sarà proprio vero, come si dice, che la vita non ha prezzo? Dopo l’attentato alle Torri Gemelle, assorbito dagli americani in qualche modo lo shock, Kenneth Feinberg fu nominato commissario speciale per i rimborsi alle famiglie dei deceduti; il budget era illimitato ma dovevano comunque essere trovati dei criteri di raffronto per erogare cifre precise. Il criterio che Feinberg adottò fu di calcolare quanto ogni vittima avrebbe presumibilmente guadagnato nel corso della vita che gli sarebbe restata da vivere; dunque gli uomini vennero valutati più delle donne, i giovani più degli anziani, i dirigenti molto più delle segretarie. Le loro vite, una volta stroncate, non ebbero lo stesso prezzo. Quando, quattro anni dopo, si trattò di rimborsare le famiglie delle vittime dell’uragano Katrina, mediamente le cifre equivalsero alla metà di quelle che erano state decise da Feinberg per le Torri Gemelle; forse perché l’uragano aveva colpito zone meno ricche di Manhattan o forse, come venne ipotizzato dalla stampa dell’epoca, perché era più difficile per l’opinione pubblica “sentirsi coinvolta”

Qui faccio una pausa e mi domando se le vittime della Lombardia non abbiano qualcosa a che spartire con questo genere di considerazioni, per esempio in relazione alla minimizzazione del problema quando ancora riguardava la povera, lontana provincia dello Hubei e all’impennata che il valore SEO delle notizie ha subìto appena è stato scoperto il primo focolaio a Codogno, ovvero dal 21 febbraio in avanti. Ma andiamo avanti.

«Per prevenire un rischio di morte, quanto è disposta a spendere una società? Nei paesi poveri la vita vale meno: è culturalmente più ovvio produrla e gli abitanti la sacrificano più facilmente – le spese per la prevenzione sono molto minori, si lavora in ambienti inquinatissimi e in edifici pericolanti, le scarse forze di sicurezza sono requisite dalle oligarchie al potere. Se i fumi, le polveri, i liquami di una fabbrica provocano il cancro, quanto più gli operai sono poveri tanto meno i proprietari di quella fabbrica dovranno spendere per bonificarla; un lavoratore che accetta un rischio di tumore in cambio del lavoro fisso, quanto valuta la propria vita?»

Mi sono occupato in prima persona di questo tipo di considerazioni nel libro La terra bianca. Marmo, chimica e altri disastri (2015), ma chiunque legga queste righe non può che pensare ai lavoratori dell’Ilva e agli abitanti di Taranto, per restare sull’attualità più nota. Dunque è vero: nei Paesi e nelle Regioni più povere la vita vale meno.

«Per rendere antisismici tutti i nostri edifici, per garantire gli agglomerati urbani alle falde del Vesuvio, per minimizzare gli attentati o i morti sulle strade, in teoria si dovrebbero spendere cifre che manderebbero in tilt qualunque bilancio; che rapporto c’è tra la spesa pubblica e vite potenzialmente salvabili? Insomma, fino a quante morti un risparmio è “ragionevole”? Anche quando si parla di vite umane, vige il calcolo costi/benefici

Ogni considerazione sui tagli alla sanità prodotti in maniera bipartisan dalla politica degli ultimi dieci anni è superflua, visto che la mancanza di terapie intensive, di reagenti per i tamponi, di respiratori, più che un virus di per sé contenibile, è diventata la vera emergenza sanitaria del nostro Paese come di molti altri.

«Le compagnie di assicurazione, loro lo sanno quanto costano la vita e la salute dei loro clienti, tengono tariffari dettagliatissimi; in un pronto soccorso del Wisconsin è stato rilevato che, tra le vittime di gravi incidenti d’auto, coloro che erano privi di assicurazione avevano il 40 % di probabilità in più di morire. Per un cittadino del Wisconsin, scegliere se permettersi o no una (carissima) assicurazione privata significa inconsciamente assegnare un prezzo alla propria vita. […] La crisi post 2008 ha messo in ombra le preoccupazioni per il clima; questo significa che, nella nostra percezione, la vita di un uomo del 2150 vale meno della vita di un uomo ora?»

È una domanda interessante, questa, perché ci consente di erodere quel tanto di retorica che fa parte della narrazione prevalente sull’epidemia in corso: se pensiamo alle ricadute psicologiche, economiche, sociali e politiche delle misure “draconiane” poste in essere da governo e opposizione in Italia, disprezziamo la vita di chi muore o rischia di morire oggi oppure stiamo dando valore anche alla vita di chi sopravvive e nascerà domani? Il principio di precauzione è contemperato da quello del minor danno? E gli italiani, negli anni in cui hanno deciso di accettare i tagli al sistema sanitario e quindi di vivere senza assicurazione sulla salute, non hanno in fondo deciso inconsciamente di attribuire un prezzo più basso alla propria esistenza, proprio come i cittadini del Wisconsin? Pare allora che il momento sia catartico in questo senso: tanto ci siamo disprezzati prima quanto ci lasciamo illudere, oggi, di attribuire alla nostra vita e alla nostra salute un valore su cui non abbiamo messo un centesimo.

«Il nostro corpo ha un prezzo: sia perché costa nutrirlo, coprirlo e mantenerlo in salute, sia perché possiamo affittarlo nella prostituzione e nella procreazione, sia perché costa seppellirlo – ma anche perché il lavoro lo consuma, e perché ormai si può vendere a pezzi col commercio degli organi: In Iran un rene costa 1200 dollari sul mercato legale, in India 860, ma in quasi tutto il mondo si possono strappare prezzi assai più convenienti sul mercato clandestino. Tutto ha un prezzo: l’aria pura costa meno in Svizzera che in Cina, in Burkina Faso gli agricoltori pagano, per usarla come fertilizzante, la spazzatura indifferenziata. Da sempre si sa che le donne costano: che sia il “prezzo per la sposa” che un giovane africano deve versare al suocero (in denaro o in capi di bestiame), o sia la tradizionale dote da dare alla figlia che abbandona la casa paterna, dote così onerosa alle volte da lasciare le figlie per sempre zitelle (o monache), o più radicalmente indurle all’infanticidio femminile. […] Nessun compiacimento cinico nello smontare il romanticismo idealista del “la vita non ha prezzo” o dell’”amore trionfa anche sulla povertà”; piuttosto il bisogno di considerare lucidamente il gap tra utopia e realtà nella vita associata, visti i giochi ambigui e sporchi che i media (e la politica) sono portati a fare su tale gap. […] È interessante, semmai, capire perché certi costi siano continuamente enfatizzati, in luce, e su altri invece si stenda pudico o complice il silenzio

Il mio dialogo con Walter Siti finisce qui, perché a lui interessava porre l’attenzione sul modo in cui partiti politici, media e pubblica opinione hanno enfatizzato, negli anni passati, determinati costi come quelli della politica – l’emergenza casta – e dell’immigrazione – l’emergenza migranti, invece che concentrarsi su emergenze che pagavano meno in termini di consenso, come per esempio il clima o i tagli alla sanità pubblica. Io porto avanti il suo stesso argomento e domando: perché si è deciso che il costo in vite umane dell’epidemia di Covid ha un prezzo molto più alto delle decine di migliaia di morti per influenza e per malattie dell’apparato respiratorio che contiamo ogni anno? Può aver avuto un ruolo l’influenza dei media e quindi un calcolo sul consenso politico, in Italia come in tutti quei Paesi che hanno seguito lo stesso copione di graduale incremento del prezzo che siamo disposti a pagare per “salvarli tutti”? Se ce l’ha avuto, noi non stiamo affrontando questo “sacrificio” per motivi idealistici e morali più nobili e diversi dal passato, ma ci stiamo comportando nello stesso modo che fin qui ha sempre attribuito un prezzo alla vita e alla salute umane in base a «tariffari dettagliatissimi». Se questo è vero, nessun “mondo nuovo” è all’orizzonte, a parte quello che dovrà pagare il conto per gli interessi di pochissimi e la cattiva coscienza dei molti. Come sempre.

*** *** ***

La fotografia a corredo è di Fulvio Orsenigo (1961), fotografo di architettura e di paesaggio. Al centro del suo lavoro, il rapporto tra rappresentazione spaziale e processi percettivi, che viene esplorato nei progetti sull’architettura e sul paesaggio con strategie di volta in volta diverse. Cofondatore del collettivo di fotografi “Fuorivista”, ha esposto alla Biennale di Venezia, alla Biennale di Architettura e alla Triennale di Milano; ha realizzato diversi progetti e volumi, insegnando fotografia presso la facoltà di Architettura dell’Università di Venezia.


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