Contro gli scrittori che non sono dovuti emigrare: manifesto di un’expat palermitana

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Ci sono tante ragioni per andare via. Una è l’impulso della curiosità e della scoperta. Un’altra è la volontà di liberarsi da ciò che si dà per scontato, il vizio che usa il potere. Così, con queste convinzioni in testa, ho lasciato Palermo. Perché con le borse di studio – a fine anni Novanta – potevi iscriverti all’università, andare dove volevi, partire. Residenze universitarie, mensa… tutto quello che serve. Si parte e si cambia. Del resto, succede ogni giorno, solo che è meno evidente di quando passi a un’altra sponda. E così, ho studiato moltissimo, sono diventata ecologista ferrea, quasi vegana e di genere “indistinto”. Quattro parole, insomma, per descrivere il mutamento degli espatriati dalla terra di Sicilia.

Solo che poi me ne sono andata di nuovo. Perché con l’Erasmus, la Alexander von Humboldt, la Leverhulme, e via discorrendo, te ne vai dove vuoi per tutta l’Europa. Dieci anni fa eravamo ancora fieri dell’Unione Europea. Transitavamo senza pensarci in un florido paradiso di spostamenti. Ho vinto tutte le borse, perché volevo viaggiare, conoscere, cambiare. Ma la motivazione non era solo quella. Ai tempi, facevo ricerca all’università: una segretaria andava in pensione e la soluzione per “farmi entrare” senza truccare i concorsi era, secondo il professore, prendere il posto della segretaria. Quel pomeriggio, uscii dal dipartimento e mi recai immediatamente presso un’agenzia di viaggi (esistevano ancora) e staccai il mio primo biglietto per l’estero – qualsiasi meta. Ancora una volta, rifuggivo il peso del potere, i meccanismi della condiscendenza, i consensi. Me ne dovevo andare. Fu così che imparai a panificare – già, perché il pane straniero non mi piace –, fu così che presi a divorare i libri di italiano dalle biblioteche, perché di lanna (come si chiama il denaro, in siciliano) ce n’era poca, pochissima.

Germania, Svizzera, Inghilterra, Svezia e poi di nuovo Germania. Si entra in una sorta di sbornia da spostamento. Alla fine, sono approdata in Irlanda. A quel tempo, vinsi una borsa Marie Curie. Facevo un postdoc, guadagnavo moltissimo. In quegli stessi anni, moriva in mare un numero impensabile di persone. A quota 300 mi sono fermata: ho abbandonato l’università, mi sono messa a scrivere come non avevo fatto prima – ovvero ogni giorno –, ho coltivato un orto e un giardino, ho preso una gatta in casa e non ho comprato nessun abbonamento alla televisione. Uno sforzo intenso che mi ha reso più leggera, anche mentalmente.

Insomma, niscivi fuoddesono diventata matta e con grande orgoglio. Certo, non si campa d’aria. Lavoro anche io, tanto, ma tanto da guadagnare quel poco che mi basta, e potrebbe essere di meno.

Come si intuisce dalla mia biografia, io non sono “dell’ambiente”: scrivo tra mille difficoltà e ho sempre uno zainetto pronto, perché non si sa mai; però non ho un minuto di frustrazione, sono nella gioia della vita, che mi diverte e mi disseta. Non ho una vita urbana e non faccio parte di alcuna compagnia di giro. Eppure, scrivo, ricerco e ho i brividi. E cerco i brividi del lettore, perché cosa altro c’è, se non mettere davanti ai lettori romanzi innovativi, interpersonali, inter-collettivi, che non si scrivono certo nell’abitudine e nella solitudine di un salotto, sotto una luce funzionale in stile bauhaus e un divanetto avant-garde.

Dunque, cosa fa lo scrittore oggi? Dico, almeno, cosa faccio io. Cerco buchi, tagli e aperture. Cerco l’umanità. Perché mi interessa superare i confini, far entrare la luce e portare dentro tutto, esplorare autobiografia, reportage, saggi, articoli, canzoni, cose altissime e altre pop e rap, slang, abbattendo i confini tra invenzione e realtà. E quelli veri, quelli tra i paesi.

Tempo fa, durante una lettura pubblica, mi chiesero perché avessi scelto l’arte della scrittura. La risposta fu, ed è ancora, molto semplice e quasi rozza: perché quando viaggi, una penna ce l’hai quasi sempre e qualcosa per scrivere pure. E io mi sento sempre in viaggio, in continuo spostamento, anche quando sono ferma a casa. Certo, sono esistiti moltissimi scrittori dei salotti. Ma ce n’è anche tra i carcerati: scrivevano con l’unghia, incidendo l’intonaco.

Dunque, quando parti per rompere l’abitudine e rifuggire la convenzione, l’abuso del potere, formi una vita (che poi entra nella scrittura) che non ha nulla a che fare con l’editoria straight, i premi pomposi, la letteratura degli amici degli amici. Non ti ritrovi nella voce monocorde e consolatoria, edulcorata e moralista degli scrittori di fama.

L’iniziativa degli Imperdonabili è la rottura di una struttura mentale italiana basata sulla raccomandazione, la lobby, il favoritismo, l’accondiscendenza, il servilismo. Dunque, non può che piacermi, perché dopo tanto sfuggire, sarebbe come un modo per tornare (astrattamente).

Ci vuole una chiarissima coscienza della serietà del lavoro intellettuale, rifiutare di farsi spettacolo, di trasformarsi in un personaggio TV o in un cartoon. Ma, soprattutto, rifiutare l’appiglio al potere, in qualsiasi forma. Il pane si fa a casa, non si compra. Insomma, essere autori che delineano in modo severo e scrupoloso una radicale mutazione della letteratura e che sono sempre pronti a recepirla con sensi nuovi. Perché né il lettore (se non incoscientemente) né gli editori (forse alcuni sì, perché magari sono a loro volta ricercatori o scrittori) sono in grado di percepire il dilatarsi spaziotemporale della letteratura e delle arti in genere. In fondo, Pier Vittorio Tondelli non viveva e pensava come se il Muro di Berlino fosse già caduto?

Poi, c’è un’altra importantissima questione. L’editoria ha ancora, come centro gravitazionale, il Nord Italia. E ha una piega massiva che marginalizza le periferie del regno o le asservisce al monopolio del Nord anche in fatto di poetiche, stili.

Come si racconta il Sud? Vogliamo rimanere dentro l’uso del dialetto? Non si tratta soltanto di produrre libri di autori meridionali (che magari ricordano le belle stagioni ai ricchi lettori del Nord), ma di dare voce a una poetica che racconti il meridione fino al fondo, senza didascalie e moralismi. Non ci aveva già insegnato Pirandello a infondere il mistero e il dubbio nel lettore? Si tratta di decolonizzarsi, imperdonabilmente.

Questo articolo è uscito originariamente nella rubrica Imperdonabili tenuta da Giulio Milani su Satisfiction.

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Fotografia a corredo di Michela Bin, per gentile concessione dell’autrice. Nata a Trieste nel 1972, Michela Bin è laureata in archeologia medievale presso l’Università di Trieste; appassionata di fotografia da sempre, ha approfondito le sue conoscenze, tra gli altri, con Graziano Perotti.


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