Parente, Gipi, le book influencer e il politicamente corretto

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Non si può mai star tranquilli, quando si è Imperdonabili. Dopo la recente intervista di Massimiliano Parente a Nicola Lagioia sui limiti del politicamente corretto – una specie di salvacondotto, col senno di poi – oggi salta fuori la querelle tra lo stesso Parente e le book influencer, una per tutte Carolina Capria, con contorno di Gianni “Gipi” Pacinotti e Simone Tempia, e bisogna andare a capire chi ha ragione in tutto questo gran casino. E chi te lo fa fare, direte? Nessuno, ma se ci tolgono anche i vizi…

Dunque, Parente è maschilista? Di certo è ben lontano dall’aver scritto «uno degli articoli sessisti più disgustosi e orrendi mai apparsi», come lo accusa Simone Tempia, uno che i “ma” e i “però” non li ha mai amati, si sa. D’altra parte, Tempia è un maggiordomo, ci sta che gli piaccia tenere tutto in ordine, ben disinfettato, proprio come quei finti tavolini delle book influencer, e che voglia apparecchiare e decidere il menù per tutti, persino quello delle opinioni.

Parente un po’ maschilista forse lo è. Un po’ di spocchia dal tono dell’articolo traspare, d’altra parte oggi chi ti ascolta, se non fai arrabbiare nessuno? Così agli stereotipi del politicamente corretto si reagisce con quelli dello scorretto e viceversa, in una sorta di complice autoalimentazione, tra destra e sinistra, che non supera il problema ma ci si avvita. Ci sarebbe poi da chiedersi se sia più maschilista chi critica le donne in quanto donne, o chi in quanto donne vorrebbe non fossero criticate mai. E poi mettiamocelo in testa, ogni uomo è maschilista, e forse è giusto così. Difficile trovare un uomo cui non dia fastidio, almeno un po’, il potere femminile, e quello delle influencer del libro tale è, una nuova forma di potere. D’altra parte, l’uomo femminista è per lo più una fregatura, un vero impostore, quindi smettiamola di pensare che gli uomini debbano tutelare i nostri diritti: tuteliamoli noi, e lasciamo che ognuno possa dire quel che pensa davvero, senza censure. L’uomo maschilista, quando non lo è troppo, quando ci si può discutere, è bene ascoltarlo, esattamente come l’amico di destra (se si è di sinistra) e viceversa. Possono rivelarci molto di noi. È sempre dall’incontro con il nemico, con la propria nemesi, che esce fuori la verità.

Carolina Capria risponde, sostenendo il suo diritto a non essere ritenuta superficiale e incompetente solo perché donna, giovane e carina. Ha pienamente ragione, e tra l’altro ha un curriculum di tutto rispetto. Però. Però a me mettono tristezza, quei tavolini apparecchiati con fiori, tazze e tovaglie in tinta con la copertina del libro. E Parente, al di là del sessismo, vero o presunto, ha scoperchiato qualcosa di non trascurabile, ha tirato fuori dal pantano una verità scomoda. Il libro sta diventando un oggetto estetico, venduto per ragioni che hanno sempre meno a che fare con la scrittura: la bellezza della copertina, la fama, magari dovuta ad altro, di chi l’ha scritto o di chi lo promuove, la fascinazione che si è riusciti a creare intorno all’autore. Ho visto in pochi anni siti di recensioni trasformarsi, iniziare ad avere come sponsor cosmetici, mobili, alimentari, vestiti. Sui social compaiono foto di libri ovunque, non solo vicino alla tazza di caffè, ma in equilibrio su una mensola, di fianco a una bella lampada di modernariato, d’estate appoggiati all’ombrellone o sulla sdraio, d’inverno con il berretto in testa. Manca solo mettergli il cappottino, come al cane. Il libro come feticcio, gadget, arredo. Ma li leggiamo davvero, tutti questi libri in passerella, tirati a lucido con un perfetto make up?

Se il libro potesse parlare, credo oggi griderebbe proprio i più famosi slogan del femminismo storico: non sono un oggetto, ho qualcosa da dire, sono mio! Non le voglio queste tovagliette, non mettermi il rossetto, sono allergico ai fiori. E a meno che tu non voglia davvero leggermi, lasciami un po’ da solo.

Perché ammettiamolo, c’è una leziosità in quelle foto, una grazia artificiale che mal si sposa con la sofferenza che la vera letteratura porta con sé. Noi stessi quando leggiamo non siamo così. Non abbiamo il tavolino perfetto, il tovagliolo in tinta, i fiorellini freschi, i capelli impeccabili e i braccialetti perfetti. Anzi, è più facile che diventiamo un po’ animali, nel senso buono. Un libro appassionante è un’esperienza totale, può richiedere un certo abbrutimento. Non è roba per signorine, di entrambi i sessi, sia chiaro. Di solito si legge stravaccati, i vestiti non devono stringere, meglio una tuta o un pigiama. Il trucco dà fastidio, gli occhi si arrossano, bisogna poter piangere. E poi Bukowski con la tovaglietta colorata ci si pulisce il culo. Houellebecq non si può leggere con i fiori sul tavolo, a meno che non siano rigorosamente appassiti. Se leggi Henry Miller o Anaïs Nin, ai capelli non ci pensi, la doccia la fai dopo, anche perché durante la lettura tutto può succedere. Non dubito che le book influencer leggano davvero i libri di cui parlano, anzi, alcune sono brave professioniste. Ma vorrei invitarle a sporcarsi un po’ di più, a non essere mercato senz’anima. Perché se la critica ufficiale è legata a un mondo chiuso e clientelare, a recensioni sempre positive per i soliti noti, a scambi di favore, l’alternativa, in teoria più vicina ai lettori, degli influencer rischia di arrivare a vendere più libri, forse, ma per ragioni altrettanto sbagliate. Ragioni tra cui la scrittura è sempre all’ultimo posto.

Riguardo a Gipi, c’è poco da dire: se Massimiliano Parente è l’imperdonabile del giorno, lui è l’eroe. Citato di sfuggita come compagno di videogiochi nell’articolo incriminato, riceve da amici di “sinistra” veementi inviti a dissociarsi. E in risposta alla loro pochezza e al loro furore ideologico, ci lascia una frase memorabile. «Non prendo le distanze da un amico. Piuttosto lo meno in privato.» E non perché un amico non si possa contraddire in pubblico, anzi. Ma quando lo decidi tu, non quando i soloni del politicamente corretto ti tirano per la giacca.

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Fotografia a corredo di Michela Bin, per gentile concessione dell’autrice. Nata a Trieste nel 1972, Michela Bin è laureata in archeologia medievale presso l’Università di Trieste; appassionata di fotografia da sempre, ha approfondito le sue conoscenze, tra gli altri, con Graziano Perotti.


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