La locomotiva a salve: anche Guccini candidato al Topoligio

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Nel 1972 Francesco Guccini scrive uno dei suoi brani più rappresentativi, La locomotiva.
Il cantautore vi narra le gesta di un macchinista anarchico che decide di lanciarsi con un locomotore in corsa contro un treno pieno di borghesi per protestare contro l’ingiustizia sociale.

La magia di questa canzone – ispirata al gesto di Pietro Rigosi, ai tempi liquidato come psicopatico – risiede nell’esaltazione di un’azione eroica e orrenda, guidata da una disperazione che va oltre il senso di giustizia (“gli eroi son tutti giovani e belli”): nel clima culturale odierno, devastato da didascalismo e mancanza di fiducia nel pubblico, la locomotiva verrebbe distrutta, politicizzata al contrario, liquidata come incitazione al terrorismo e alla violenza; suonerebbe ancora più stridente, e scomoda, perché non potrebbe godere nemmeno più del sostegno del proletariato (ipnotizzato dal laidume delle pseudo-destre) né dei centri sociali (troppo impegnati nell’apprendimento della pronuncia dello Scevà).

Ora, lo stesso Guccini, seppur cinquant’anni più tardi (spoiler: questi cinquant’anni sono alla base della mia totale assoluzione del cantore da tutte le accuse che sto per formulare), ha firmato la petizione a favore di Roberto Speranza, che «si è battuto per il principio della massima precauzione e della massima cautela» ed è ora «nel mirino di un attacco politico e personale ignobile».

Vedere il suo nome tra i firmatari dell’appello, insieme a Mattia Santori e Massimo Ghini, mi ha colpito a tradimento: com’è possibile che il mio vecchio guru – l’unico cantante non punk che ha avuto il privilegio di accedere alle mie playlist adolescenziali –, si mobiliti per una causa così pompieristica? Precauzione e cautela? Dov’è la voce contro a prescindere, la rivoluzione degli ultimi, dei deboli relegati dalla storia nella parte del torto, ma che hanno il diritto di essere ascoltati?

Secondo Noam Chomsky, è una responsabilità degli intellettuali dire la verità. Svelare le bugie, analizzare le cause e i motivi degli eventi, problematizzare “la storia che scorre in diretta”. Questo perché gli intellettuali godono di privilegi che non sono condivisi dagli altri membri della società: la libertà di espressione, la capacità di concentrare l’ascolto e dunque di influenzare le masse con il loro modo di pensare. Alla luce di questo aspetto, gli intellettuali sono tenuti a presentare la realtà in modo leale, «intellettualmente onesto» appunto, e non come vuole essere rappresentata dalla propaganda.

Giuseppe Prezzolini, in riferimento alla chiamata degli intellettuali fascisti, ci spiega qual è la caratteristica a cui ogni intellettuale non dovrebbe mai rinunciare: la libertà politica, di pensiero e di parola.

Se la parola “intellettuale” ha un significato, esso viene da “intelligenza”. Se “intellettuale” è colui che adopera l’intelligenza, l’intellettuale non può aderire al Manifesto degli intellettuali fascisti, e soltanto in parte a quello degli intellettuali liberali, perché l’uno totalmente, l’altro parzialmente, rispondono ad una azione politica, anzi ad una passione, che rispecchia gli scopi dei partiti politici, o meglio delle parti, che sono in contesa in Italia. E un intellettuale, se vuol conservarsi tale, non può oggi aderire ad una parte politica. Le esigenze della politica in Italia son tali, che milizia ed ossequio ragionevoli non sono possibili; si vuole una schiavitù ed una rinunzia del pensiero, che un intellettuale non può ammettere.

Giuseppe Prezzolini, “I partiti chiedono l’adesione degli intellettuali. «Né di qui, né di là»” in Il resto del Carlino del 21. marzo 2010 (p.6)

Da questa prospettiva, se si guarda al manifesto “Prosperanza”, siamo di fronte a quello che rappresenterebbe il tradimento degli intellettuali e, di conseguenza, anche il tradimento del privilegio della libertà politica di cui parlava Chomsky.

Sostegno a Speranza? Quello che ha chiesto ai cittadini di segnalare il comportamento dei vicini di casa? Che si turba persino quando vede passare le automobili per strada? Dove se l’è infilata Guccini la fiaccola dell’anarchia? 

Eppure io lo capisco, e lo perdono, lui non è più il trentacinquenne sveglio alle quattro del mattino, con l’angoscia e un po’ di vino, roso dalla voglia irrazionale di bestemmiare, non è più onere suo portare avanti la rivolta, e forse il clima autoritario che si respira in Italia da un anno a questa parte lo ha sedotto, smuovendo certe leve emotive rivoluzionarie proprie della sinistra, così come era avvenuto con il khomeinismo

No, io me la prendo con l’inesistenza dei suoi eredi, perché questa non è la sua rivoluzione, non può esserlo.

Smettiamola di credere che i Guccini di questo mondo veglieranno sempre sulla nostra libertà come santini benedetti: Dio è morto sul serio e Guccini non esiste più, se non nella lista dei candidati al nostro Premio Topoligio, in mezzo agli altri zombi più o meno consapevoli dello scempio del quale si sono resi complici.

Giudizio troppo severo per un uomo di ottant’anni che tanto ha detto e tanto ha dato, a me in primis? Sicuramente, ma questa iconoclastia è necessaria per rendersi conto che esiste un vuoto nuovo da colmare, e sentire il dovere morale di occuparlo.

L’Italia è il paese occidentale che ha avuto più vittime Covid, più restrizioni, più danni economici e meno vaccini: l’antico Guccini avvelenato dovrebbe cantare la ristoratrice di Pistoia, che si inginocchia nel bel mezzo delle manifestazioni di Roma, e chi se ne frega se ne ha il diritto, perché è lei in questo momento l’emblema dei soccombenti, dei dimenticati, dei reietti dalla parte del torto.

Invece il suo nome se ne sta lì, tra Umberto de Giovannangeli (chiunque egli sia) e quello del re delle sardine, aggiungendo un peso specifico irrisorio a una scaramuccia di regime dalla noia mortale. Lo spettacolo a cui assistiamo è il bagliore scaturito da una nuova “variante sinistra”: una “mutazione antropologica” – per dirlo con le parole di Pier Paolo Pasolini –, di una sempre più “sinistra sinistra”.

Siamo nel vivo di quel periodo cupo che ancora Pasolini aveva previsto, quello dell'”entropia borghese”, che ha avvolto anche le ultime bandiere rosse, come quella di Guccini, nel suo nuovo “omologato” manto.
E io mi ritrovo come Moretti in Aprile, in ginocchio davanti al televisore, a pregare invano il mio bardo di non farsi mettere in mezzo proprio sulla libertà, il concetto che gli è sempre stato più caro.

Se volete il potere, impadronitevi, almeno del potere
Di un Partito che è tuttavia all’opposizione
ed ha come obiettivo teorico la distruzione del Potere

Pier Paolo Pasolini, Saggi sulla Letteratura e sull’arte I, a cura di Walter Siti e Silvia De Laude, Milano: I Meridiani. Mondadori.

Ottenere potere per distruggere il potere.

È vero, essere anarchici oggi provoca troppi dibattiti, troppa indignazione e poca azione, e a me che ormai sono un borghesaccio, ma che la fascinazione per quella roba l’ho sempre provata, non resta che rileggermi quel vecchio intervento di Francesco Negri, Coronavirus e Rivoluzione, scritto di fretta e nemmeno troppo bene, poco poetico, un po’ ignorante, ma con il cuore dalla parte giusta.


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