Sembrava un romanzo

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Si parlava giusto un paio di settimane fa con il gran visir di tutti i samurai, Antonio Franchini, di come la letteratura italiana, a nostro parere, sia appiattita su paradigmi obsoleti che ormai si autoalimentano producendo romanzi fotocopia, che addomesticano un lettore sempre più disaffezionato.

Persino Christian Raimo, il Dustin Hoffman di Roma 3, ci ha confessato di essersi rotto le palle, e si è messo a produrre contenuti didattici, abbandonando la nave che affonda.

Invece, lo Strega prosegue uguale a sé stesso, con il suo Dadaumpa sanremese e il vincitore predestinato, che quest’anno dovrebbe essere Sembrava bellezza di Teresa Ciabatti, candidato dal solito Sandro Veronesi: siccome ci siamo già occupati di lui con questa recensione/caso di studio, non potevamo ignorare una sua proposta. 

Si tratta di un romanzo intimista che ha per protagonista una donna di mezza età, incattivita da un’adolescenza squallida e frustrante, che ha cercato il riscatto perseguendo una carriera da scrittrice di successo.

Nel suo passato spicca il rapporto con Federica, la sua migliore amica, con la quale condivideva le turbe da underdog, e sua sorella Livia, una figa spaziale stereotipatissima, un mostro di egoismo e superficialità creato (dalla Ciabatti, mica da Dio) al solo scopo di far sentire le due amiche ancora più inadeguate. 

Il punto di svolta della vicenda è una caduta dal balcone, che ha trasformato Livia in una minorata della quale Federica ha dovuto prendersi cura per vent’anni.

Melania Mazzucco, che presiede il Comitato dello Strega, ha scritto di recente che “i libri selezionati per lo Strega 2021 raccontano per la maggior parte storie legate al vissuto personale dell’autrice o dell’autore, al suo mondo privato e prossimo, e alla geografia locale, provinciale, talvolta rionale. Fra i sessantadue titoli proposti abbiamo notato […] una generale diffidenza nel romanzo di intreccio e di genere”: ecco, Sembrava bellezza è il libro programmatico dello Strega 2021.

Lo sapevamo, eravamo stati avvisati, ce l’avevano detto, ma noi siamo andati a leggerlo comunque.

La prima cosa che si nota è una tremenda forzatura, come se l’autrice avesse deciso di costringere il lettore a provare emozioni: l’affabulazione è ai massimi storici, e le pagine grondano di fastidiosi pizzicotti al lettore, richiami all’attenzione, sottolineature e ripetizioni (“Ammettetelo: quante di voi hanno desiderato essere la ragazza sui manifesti…”, “Ma riavvolgiamo il nastro – in seguito scoprirete che esiste daddovero una registrazione -, riavvolgiamo il nastro alla mattina della sparizione”, “Chiediamoci di nuovo come e perché la ragazza bellissima, desiderio di un intero quartiere, sogno proibito di almeno tre generazioni di maschi, si sia trasformata in una minorata”, “A questo punto vi chiederete come la creatura speciale, desiderio di un intero quartiere, sogno proibito di almeno tre generazioni di maschi, si sia trasformata in questa donna di cinquant’anni, in questa minorata. Vi chiederete come e perché”): o l’autrice considera il lettore privo della minima capacità di unire i (vicinissimi) punti del suo romanzo, o sta provando a tenerci svegli.

Nella sua foga affabulatoria, la Ciabatti prova costantemente a creare un parallelo tra ciò che è accaduto alle sue protagoniste e la scomparsa di Emanuela Orlandi, ma questa giustapposizione, se da un lato sarebbe suggestiva – un tentativo di infliggere alle vicende personali un afflato allegorico/universale, come ha fatto nel romanzo precedente, quello sulla “figura” allegorica del Padre, ricettacolo di ogni nefandezza –, perde tutta la sua forza perché il confronto risulta arbitrario. L’impressione è quella di avere Teresa Ciabatti costantemente a un centimetro dall’orecchio, invadente come un porta a porta: nell’apice della sua crisi ambiguofobica, interrompe la narrazione ed esplicita, a prova di idiota e con tanto di bullet point elencativi:

“Elementi comuni col caso Orlandi:
– il soggetto è stato avvicinato fuori da scuola con la promessa di un lavoro
– Il soggetto è un ragazza di diciassette anni.”

L’autrice gioca di continuo, e con pesantezza, con la supposta verità della vicenda, ma dimentica un’evidenza palese: non sta scrivendo di storia, né sta conducendo un’indagine metanarrativa, quindi a nessuno, in fondo, frega nulla del fatto che il libro possa trattare di avvenimenti reali.

Non mi interessa sapere quanto la protagonista sia una proiezione dell’autrice, non è rilevante che Livia esista o sia caduta da un balcone, tutti questi fatti sono ordinari, e per la legge dei grandi numeri da qualche parte sarà successo qualcosa di simile in ogni caso: gli Imperdonabili predicano da due anni la scomparsa dell’autore (e in alcuni casi, pure la scomparsa del romanzo).

I personaggi sono, ancora una volta, stereotipi ambulanti: le adolescenti-brutte-incattivite-dall’invidia, la sorella-bellissima-e-stronza, i-genitori-che-perdono-la-testa-dopo-la-tragedia, i pariolini… Ma perché farlo? Dove sono i dettagli irripetibili che rendono un personaggio memorabile? Dov’è il realismo dettato dall’impossibile teorizzato da Walter Siti, il gioco di prestigio del romanziere che produce un’illusione di realtà più credibile della realtà stessa?

E la storia? Non accade nulla per tutto il romanzo, è solo il memoir di una scrittrice di successo con la vita che va a rotoli, e l’unico mistero (come è andata quella notte sul balcone?) è del tutto irrilevante e non ci tiene sulle spine per mezza pagina.

Ma come si può essere soddisfatti di questo? Leggete il romanzo e immaginatevi la storia in un film: siamo sotto il livello della fiction, e purtroppo questo è lo stato nel quale la formula (vecchia di cinquant’anni, si pensi alla collana “Franchi Narratori”) delle scritture del sé + stile colloquiale + scandalo hanno ridotto i nostri prosatori: romanzi che, pure a sforzarsi, possono diventare al massimo un film di Muccino.

Per quanto l’autrice possieda i vecchi arnesi del mestiere (e ci mancherebbe!), la domanda che continuo a pormi suona in questo modo: come possiamo essere soddisfatti di tanto poco? Il mio non vuole essere un attacco a Teresa Ciabatti, che non ha alcuna colpa se non quella di cavalcare un trend (negativo), ma all’intero approccio al romanzo. La desolazione risulta dalla circostanza che non si riesce nemmeno più a distinguere lo sforzo di creare uno scarto, qualcosa di nuovo, unico e diverso: qui abbiamo esperti del settore che creano pornografia emotiva per spremere fino all’osso una vena inaridita da anni di sfruttamento.

Franchini ha bollato come assurda l’idea del critico Gilda Policastro che i lettori siano abituati male dall’editoria, per questo voglio lasciarvi con la frase più sottolineata dai lettori nella versione e-book di Sembrava bellezza, che corrisponde alla cifra filosofica del romanzo:

“Come funziona la mente umana.
Funziona in modo differente per ciascuno di noi in base al percepito, e anche alle caratteristiche fisiche. La stessa esperienza ha tante versioni quante le persone che l’hanno vissuta”.

La frase più sottolineata del libro della Ciabatti è di una banalità sconcertante, peggio di una citazione della Smemoranda. Eppure i lettori la sottolineano. Ora: i lettori della Ciabatti son tutti ritardati? Oppure qualcuno li ha convinti che questo favolismo da “cervello in una vasca“, presentato col giusto packaging, sia lo standard di qualità a cui tendere?

In copertina:
Teresa Audrey Ciabatti dà da mangiare al micio nell’atrio di Villa Giulia, in provincia di Premio Strega


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