In risposta a Matteo Marchesini: perché gli Imperdonabili non sono niente che si sia già visto

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Caro Matteo Marchesini, non ci conosciamo di persona ma neanche due anni fa ho avuto modo di esprimerti pubblicamente la mia solidarietà per la vicenda editoriale legata all’epurazione della tua opera critica dalla programmazione della Bompiani diretta da Antonio Franchini. In quella occasione, l’argomento in base al quale le scelte editoriali non si discutono – al limite, se ne denunciano le modalità –, ma occorre distinguere tra la stroncatura (di cui parlava Franchini) e l’esercizio della critica, mi convinse pienamente. Soprattutto, mi colpì quel tuo viatico finale, visto che negli stessi giorni stavo lanciando una collana antologica di nome Wildworld: «Sperando che gli editori diventino un po’ più “selvaggi”, dato che vogliono selvaggi i lettori. A meno che il termine non abbia per loro un altro significato.»

Parto da questa considerazione, che hai fatto nel pieno di un momento dialettico, per chiarire un po’ meglio il momento che stiamo vivendo noialtri imperdonabili. La fronda letteraria è nata dopo l’allontanamento di Davide Brullo da Linkiesta per lesa maestà autoriale, proprio come è successo a te: il suo esercizio critico, in questo caso, aveva colpito alcuni elementi di spicco di quella che ho definito la specie letteraria protetta. Immagino che il passaggio non ti sia sfuggito, visto che nel tuo intervento sul Foglio ci riconosci di aver diretto l’attenzione su un aspetto importante: «Il problema che sollevano, quello di un’industria culturale conformista e incapace di sopportare la critica, è reale e grave.» Tuttavia subito dopo impieghi lo stesso argomento con cui Franchini e la sua camera dell’eco liquidarono la tua denuncia dei fatti: «Dispiace che lo affrontino con un linguaggio a quell’industria perfettamente omologo: invettive contro i “compitini” dei “soliti noti”, vagheggiamento di un “pensiero forte” e “fuori dagli schemi”… Finché inquadrano concrete questioni organizzative, i discorsi degli agitatori sono interessanti, ma dove pretendono di legarle a un’alternativa estetica mistificano il quadro. Nessuna alternativa s’intravede infatti nella loro retorica brancaleonesca, in cui i nomi di avversari e alleati sembrano quelli di avventori ritrovatisi casualmente in due locali che differiscono appena per un tocco di design o per i prezzi attribuiti a qualche arredo di moda.»

In sintesi, ci stai accusando: 1) di aver prodotto delle semplici stroncature con «veemenza ugualmente astratta o arbitraria» e non un discorso critico e articolato, serio, originale; 2) di essere l’equivalente antagonista di un mondo di cui aspiriamo a far parte nelle stesse forme, con un identico linguaggio, ma con lo stigma dell’incompetenza (o «retorica brancaleonesca», che è un frame linguistico ricorrente tra i nostri oppositori) e dell’opportunismo (vogliamo darci «un’identità diversamente impegnata»).

A parte che, se così fosse, evidentemente significa che anche nella nostra epoca parliamo la stessa lingua, mentre tu scrivi che «da decenni manca una lingua comune, quella che permetteva a Pasolini e Sanguineti di litigare capendosi». Adesso io non so, oggi, chi voglia aspirare a essere Pasolini o Sanguineti, che mi sembrano solo i santini o i distintivi di un mondo che non esiste più, però vorrei informarti del fatto che: 1) il valore dei combattenti, che elegge i nuovi aristocratici, si costruisce sul campo e non a tavolino, e noi stiamo ingaggiando una battaglia di materiali sul campo; 2) i narratori della Wildworld sono in possesso di una «estetica alternativa», mentre dei poeti potrà dirti Davide Brullo, che ha un buon osservatorio con la sua Pangea.

Personalmente, ti invito a leggere libri come “Sotto il suo occhio” di Giulia Seri o “L’avversaria” di Michela Srpic, per citare due scrittrici dall’estetica alternativa alle Murgia e alle Ciabatti; ti invito a prendere visione dei manifesti di Viviana Viviani, Michela Srpic, Luca Fassi, Simone Cerlini, Viviana Fiorentino e il mio sulla poetica editoriale: scoprirai che stiamo costruendo in modo niente affatto improvvisato e incompetente un contesto discorsivo che mira a incrementare la rappresentatività del letterario e a modificare l’esperienza di lettura del romanzesco, esattamente come fecero i minimalisti – non già le avanguardie, né i finti movimenti prodotti dagli uffici stampa, come I cannibali o i TQ – quarant’anni fa. La rivoluzione che stiamo preparando è profonda e destinata a regnare a lungo, proprio perché investe l’estetica «media» e mette in crisi i presupposti di partenza (o «idee ricevute», «opinioni in affitto») del paradigma letterario prevalente (quello che ho chiamato «Rollo/Franchini», riferendomi alla produzione narrativa di massa degli ultimi trent’anni in Italia).

Immagino che ai cultori dell’eccezione e del genio tutto questo discorso possa sembrare inutile, e quindi privo di valore, ma siccome la nostra (o almeno, la mia) battaglia è rivolta a liberare il settore editoriale dalle tare che la mentalità romantico-aristocratica ha passato alla società urbano-borghese, respingo al mittente ogni accusa di improvvisazione, opportunismo, incompetenza: sappiamo quel che stiamo facendo, perché lo stiamo facendo e dove vogliamo andare a parare.

Certo, abbiamo pubblicato anche manifesti “spontaneisti”, per via del loro valore sintomatico, ma pure questo è accaduto nella “selvaggia” convinzione che c’è qualcosa di eversivo, prima che liberatorio, nel mettere nero su bianco la propria volontà, il proprio sentire. Quella che ho chiamato «manifestite», in modo ironico o situazionista – perché mi piace rompere con la plumbea seriosità del militante, del devoto e del sacerdote –, è se ci pensi una “figura” che compie e supera tutta un’esperienza novecentesca ormai inane, inserendola nel tratto empatico e nel flusso informativo che è invece caratteristica della nostra epoca: quanto viene scritto o detto sull’onda dell’autenticità – ossia nell’ambito dei propri limiti –, è ben più significativo di uno sconfinamento oltre le proprie forze e la propria condizione.

L’esperienza senza mezzi e i mezzi senza esperienza, posso convenire su questo, hanno determinato l’attuale panorama poetico e narrativo prevalente. Qualcosa si doveva pur tentare, per provare a salvare almeno lo spirito dell’antica civiltà del libro, o anche solo per decidere che nulla si può salvare e che occorre abbracciare l’imago come il prodotto fatale della phonè e trasferire nella nuova epoca i nostri saperi.

Tu chiamala, se vuoi, transizione.

*** *** ***

Fotografia a corredo di Michela Bin, per gentile concessione dell’autrice. Nata a Trieste nel 1972, Michela Bin è laureata in archeologia medievale presso l’Università di Trieste; appassionata di fotografia da sempre, ha approfondito le sue conoscenze, tra gli altri, con Graziano Perotti.


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